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tra Ue e Italia

Le Maire e Habeck volano da Biden mentre Meloni sull'Ira non ha una linea

Valerio Valentini

Il viaggio franco-tedesco negli Usa in vista del Consiglio europeo in cui i capi di stato e di governo discuteranno della risposta all'Inflation reduction act. L'Italia resta isolata 

C’è chi rievocherà il viaggio in treno verso Kyiv; chi suggerirà il paragone scomodo col predecessore, di quando era lui, il presidente del Consiglio italiano, a volare in America a nome dell’Europa. La triade che non c’è più, dunque? L’Italia che resta a guardare? A Palazzo Chigi, più banalmente, dicono che è tutto sotto controllo, ché il luogo deputato per affrontare la discussione sarà il prossimo Consiglio europeo. E ci sta.

 

Solo che a Bruxelles, il 9 febbraio, Francia e Germania ci arriveranno con una posizione unitaria. E ci arriveranno con una cartellina che contiene la sostanza del dialogo, presente e futuro, tra le due sponde dell’Atlantico sul più delicato dei temi: l’Inflation reduction Act (Ira). Per questo nei prossimi giorni il ministro Bruno Le Maire e il vice cancelliere Robert Habeck, i due titolari della politica industriale dei governi Macron e Scholz, voleranno insieme a Washington. E, con loro, ci saranno anche funzionari della Commissione di Ursula von der Leyen: perché è chiaro che il senso della missione è europeo

 

E certo a poco varrebbe, stavolta, lo strepitare contro “un’Europa in cui Parigi e Berlino decidono, e l’Italia obbedisce”, come amava ripetere Giorgia Meloni nel tempo felice dell’opposizione. Perché, in questo caso, il decisionismo franco-tedesco s’è alimentato dell’assenza italiana, dell’incapacità, da parte del governo patriota, di esprimere una linea, di formulare una proposta, insomma di dire qualcosa che non si limitasse soltanto a contestare l’ipotesi inizialmente ventilata a Bruxelles di allentare i vincoli sugli aiuti di stato, e chi più ha più spenda, in risposta al pacchetto da 370 miliardi varato dall’Amministrazione Biden.

 

E insomma all’ultimo Ecofin di metà gennaio, quando Le Maire è arrivato con l’andatura baldanzosa di chi voleva intestarsi “un piano industriale europeo”, e Christian Lindner, dietro di lui, scherzava coi giornalisti “perché so, pur non parlando il francese, di condividere perfettamente gli obiettivi dell’amico Bruno, visto che ne abbiamo a lungo parlato”, Giancarlo Giorgetti aveva da scansare le domande sulla ratifica del Mes. Per cui sarà pur vero, come lamentano a Palazzo Chigi, che sulla stampa europea, specie quella tedesca, c’è una pregiudiziale antimeloniana; ma al fondo, in questi primi cento giorni di governo, c’è l’incapacità da parte della premier di intercettare le priorità strategiche condivise da Macron e Scholz. Perfino in una fase, ed è paradossale, in cui le relazioni tra i due storici alleati sono slabbrate come mai negli ultimi decenni. E invece Meloni è parsa quasi rivendicare il suo isolazionismo (“Il Trattato del Quirinale con la Francia? Non l’ho letto”), salvo accorgersi poi dei rischi che da questa strategia conseguirebbero. E così, il 3 febbraio, a Berlino, nella sua visita a Scholz, cercherà di invertire la rotta recuperando quel “Piano d’azione” con la Germania a cui Draghi aveva molto lavorato, e che lei aveva accantonato.  

 

Nei giorni scorsi, ad esempio, il direttivo economico della Spd ha dichiarato ufficialmente che sì, la situazione europea richiede stanziamento di fondi europei per reagire all’Ira americano. È una campana che segna il successo della linea espansiva indicata da Macron. È una possibile svolta che dovrebbe far felice Meloni. Eppure, nessuna reazione. A Berlino, poi, c’è chi spinge per finanziare i sussidi alle imprese tramite i fondi non spesi del Next Generation Eu: e c’è una certa sintonia, quindi, con le lamentele del governo sulla impossibilità di utilizzare tutti i fondi del Pnrr. Eppure Raffaele Fitto, impegnato sulla baruffa dei balneari, non s’è fatto sentire. Né del resto ha parlato Adolfo Urso, malgrado la missione americana di Habeck e Le Maire abbia tra gli obiettivi fondamentali quello di riparare dalle minacce del protezionismo americano un settore europeo, quello dell’automotive, che al ministro del “Made in Italy” sta molto a cuore.

 

D’altro canto, la possibilità di convincere l’Amministrazione Biden a salvaguardare l’industria europea dalle restrizioni più gravose dell’Ira – quantomeno includendo l’Ue nel novero dei paesi amici, com’è per Messico e Canada – passerà per la firma di un accordo che costituirà, a suo modo, una sorta di aggiornamento del Ttip, il Trattato di libero scambio transatlantico. E Meloni, che pure rimprovera all’Europa di non aver tutelato le catena del valore nell’ottica del friendshoring, non ha ancora rinnegato le sue battaglie gridate contro il Ttip (“Una mazzata sul Made in Italy”) e il Ceta tra Euorpa e Canada (“L’ennesima marchetta della Ue alle grandi multinazionali”). Ha dunque cambiato idea?

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.