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il commento

Renzi, Calenda e la sfida di assomigliare al paese che si aspira a governare

Giuliano Ferrara

In passato, l'ostacolo è stata sempre la politica, come vero rapporto con la società. Ma il riformismo liberale 4.0 ha un futuro. Somigliare un po’ di più allo stato che si vuole guidare è ciò che manca ai leader del Terzo Polo

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Tentativi di affermare un riformismo liberale ce ne sono stati, ma tutti fallimentari. Non che si sappia davvero bene che cosa riformismo liberale significhi, se esista. Limitiamoci, per non parlare di Alleanza democratica (Scalfari-Adornato) o del compianto Massimo Severo Giannini (Galli della Loggia-Teodori), al fulmineo e subito trapassato esperimento di Mario Monti, nel quale fu coinvolto di striscio anche Carlo Calenda in funzione di sostegno al salvatore della Patria, buono come uomo di stato e professore ma di corta gittata nell’arena della manovra parlamentare e sociale.

  

L’ostacolo fu sempre la politica, quella strana cosa che non ha altro contenuto che sé stessa. Il rapporto reale con la società. Una mancata simbiosi dovuta a concorrenti abbastanza forti nella caccia al consenso e al sopracciò tipico dei liberalismi elitari. Eccetera. Renzi fu l’unico a combinare qualcosa, anzi parecchio, specie se si pensi che il partito di cui divenne il capo in fondo era pronto per dissellarlo e odiarlo di un odio cieco alla prima occasione utile, e dunque i suoi risultati effettivi e potenziali sono ora in apparenza cancellati dalla dannazione della memoria. 

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Però è sopravvissuto e ora si ritrova, con un altro sopravvissuto, Calenda, in un partito che si vuole della nazione, che si vuole ambizioso nel traguardo delle elezioni europee, che si giova del declino del Partito democratico, che si costruisce su buone idee di base, sul rinnovo del mito della competenza, sulla solita uscita dalla mitologia destra-sinistra, di origine settecentesca, e anche su un dato caratteriale: Renzi è un iperattivista e lobbista di talento, Calenda è estremamente vanitoso, narcisista, e ha la forte tendenza a rendersi demotico, popolare e fin vernacolare nell’aggressività, nella rischiosa eppure baldanzosa sicumera, nel richiamo non del tutto astratto a criteri di cultura estranei ai cantori della famosa guerra di Crimea, posticipata di una decina d’anni dal buon Gasparri in Senato, maestosamente.

 

L’idea di base non è nuova. Vecchiotta, direi. Pensano si possa modernizzare un paese inguaribilmente antico come l’Italia, comminandogli riforme capaci di intaccare e stravolgere la sua vecchia struttura statalista, corporativa, che si riproduce con i difetti del caso anche nelle amministrazioni decentrate, hanno buoni orientamenti in materia di giustizia e stato di diritto, spesso ineccepibili in politica estera e di sicurezza, il loro forte è l’economia da asciugare e rilanciare oltre i guasti dell’assistenzialismo, da pompare con criteri di aderenza alle pratiche dell’innovazione, della tecnologia, dei mercati globali, non senza un elemento ovvio di solidarismo sociale. Innervati anche da una certa severità, che gli viene dal sostrato idealmente conservatore di ogni serio progressismo pratico, sono sulla carta una buona carta.

 

Non particolarmente di sinistra, si muovono oltre le retoriche delle diseguaglianze e del pauperismo lamentoso, oltre gli stilemi del sovranismo e del vecchio classismo, anche nelle sue forme populiste andanti. Così uno potrebbe sospettare che questa sia la volta buona. Chissà. Se si pensi a Milano e al nord, ma anche a Roma, dove hanno raggiunto in pochi mesi di vita risultati a due cifre encomiabili, se si pensi ai ceti dirigenti imprenditoriali, alla possibilità, che dovrebbero scavare, di un sindacalismo non vittimista, trasformatore, capace di vera rappresentanza di lavoratori, professionisti, autonomi, giovani precari, piccole imprese e pensionati, uno potrebbe pensare che abbiamo trovato la quadra.

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Con prudenza. Bisogna che i leader, con i loro caratteri e le loro vanità, non si infognino in una logica di lite o battaglia dei capi. Bisogna che imparino a assomigliare al paese che aspirano a governare, a volte anche in peggio, assorbendone le lezioni ogni volta che gliene impartiscono una. Bisogna poi vedere se vogliano fare una lunga marcia o sperimentare un’alleanza con forze uscite vincitrici dalle ultime elezioni politiche, dopo le europee, che ormai esprimono aree di contiguità con loro forse superiori a quelle del neolaburismo dei diritti e del neomélenchonismo di Pd e grillini, come cinguetta già garrulo l’uccellino. Nessuno scandalo, staremo a vedere.

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