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Il requiem del Pd, un “Ogm” frutto di una politica vuota e decadente

Paolo Cirino Pomicino

Siamo allo sfinimento delle due maggiori culture politiche del Novecento sostituite da partiti personali e da una classe dirigente di stampo cortigiano. Forse ha ragione Rosy Bindi: i dem vanno sciolti, ognuno torni a casa propria e cominci un nuovo percorso capace di dare nuovo smalto a partiti e istituzioni

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Quindici anni fa, quando il seme della follia politica partorì il Pd mettendo insieme due culture, due storie profondamente diverse, fummo i soli a definire il nuovo partito un organismo geneticamente modificato. Una diagnosi tranchant perché in politica gli intrecci del Dna fra storie e culture diverse non possono resistere a lungo. Dopo tanto tempo durante il quale il potere del governo non è mai mancato siamo al tramonto di quel partito. Rosy Bindi parla dello scioglimento del Pd per rifare qualcosa di simile. Pierluigi Castagnetti parla oggi con preoccupazione vedendo tornare gli spiriti della sinistra antagonista  e minaccia una scissione.

 

Luigi Zanda si è già dimesso da quel comitato che avrebbe dovuto rielaborare lo spirito di un partito che ha già esaurito le proprie batterie. Nel frattempo l’annunciato congresso si sta risolvendo in una corsa dei candidati nella quale quel che io definisco il Peppone del terzo millennio, Stefano Bonaccini sarà il sicuro vincitore. Come ci insegna Giuseppe Tomasi di Lampedusa perché tutto rimanga così com’è c’è bisogno che tutto cambi. Ma questa frase all’interno di una vicenda storica come l’unità d’Italia ha un suo significato, mentre lo perde se si tratta di ritrovare le antiche radici di culture politiche che hanno appassionato milioni di italiani per 40 anni. Il vecchio troncone comunista è divorato dall’odio contro il socialismo, sebbene quello sia il suo sbocco naturale (la sinistra europea è largamente socialista) ma la crisi politica italiana, con tutte le sue contraddizioni, spinge quell’area sempre più a sinistra dove si è collocato il M5s e i democristiani avranno sempre più difficoltà a seguirli. Non si tratterebbe di una vera scissione come tra le righe ha fatto balenare Castagnetti, perché qui non c’è un partito con un’unica cultura che si spacca tra riformisti e radicali o fondamentalisti come avvenne a Livorno. Storicamente ha vinto Turati e non Bordiga o Gramsci e tardare a prenderne atto è un infantilismo politico. Qui ci troviamo con un innesto tra due storie cementate dal potere ma incapace di fare germogliare qualcosa di diverso. Una cultura politica ha bisogno di un pensiero a lungo irrorato dalla sapienza di filosofi, di storici, di intellettuali di ogni tipo e militanti. Siamo in una fase in cui c’è, al contrario, l’assalto di interi gruppi familiari al Parlamento della Repubblica facendo apparire in lontananza una sorta di mandarinato privo di ideali e solo pronto alla gestione del piccolo potere quotidiano.

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Siamo allo sfinimento delle due maggiori culture politiche del Novecento sostituite da partiti personali e da una selezione della classe dirigente di stampo cortigiano dove la fedeltà al capo di turno è il criterio fondamentale per fare carriera. Forse ha ragione Rosy Bindi: il Pd va sciolto e, aggiungiamo noi, ognuno torni a casa propria e cominci un nuovo percorso capace di dare nuovo smalto a una politica decadente. Le strutture, anche quelle politiche, tardano nell’accettare la propria fine ma il disastro politico, economico e sociale italiano è sotto gli occhi di tutti e se questo processo di lenta dissoluzione viene lasciato a se stesso l’Italia soffrirà non poco e dovrà affidare il proprio futuro alla sola maggioranza politica uscita dalle urne. E ancora una volta Giorgia Meloni ringrazierà. 

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