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l'equilibrio tra le parti

I due congressi (Pd e Lega) contro l'estremismo che alzano l'asticella della competizione con Meloni

Claudio Cerasa

Uno c’è, è quello del Partito democratico, un altro ci vorrebbe, in sostituzione della leadership di Salvini. L'obiettivo di alleati e opposizione è di dare al centrodestra un volto meno nazionalista e antieuropeista

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È il trasformismo, bellezza. Di tutte le possibili critiche ricavabili dalla presentazione della prima legge di Bilancio firmata dal governo Meloni, ve n’è una che difficilmente potrà trovare una sua solidità all’interno del dibattito pubblico e quella critica, oggi impossibile da formulare, coincide con un concetto, che è insieme un sospiro di sollievo e un elemento di riflessione: la presenza, o meglio la non presenza, di fronte ai nostri occhi, di una manovra dalla natura esplicitamente estremista. Ci sarà tempo naturalmente per riflettere sulle strategie economiche di Meloni, e anche sull’impotenza della sua coalizione, ma al momento, alla prima prova dei fatti, il punto sembra essere questo: il centrodestra ha presentato una manovra modesta ma non pericolosa.

 

Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, aveva detto già in campagna elettorale che il suo eventuale governo non avrebbe giocato eccessivamente con le leve del debito pubblico – concetto che come è stato più volte notato non poteva che essere una scomunica preventiva delle stesse promesse economiche messe in campo del centrodestra durante la campagna elettorale; promesse come le riforme sulle pensioni e la flat tax, realizzabili solo giocando con le leve del debito pubblico. E in un certo modo la manovra meloniana conferma un’impressione, che avrà un impatto anche sulla vita degli altri partiti: la volontà da parte del centrodestra di governo di essere decisamente mainstream sui grandi temi, a tratti verrebbe da dire persino moderato, e la conseguente volontà di essere molto identitario sui temi a basso impatto economico.

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Di fronte a una premier che ha scelto un profilo da Giano Bifronte può essere utile proiettare verso il futuro la traiettoria di due partiti in grande movimento in queste ore. E i due partiti che vale la pena monitorare sono, per forza di cose, da un lato il Pd e dall’altro la Lega. E il tema di fondo è per entrambi esattamente lo stesso: di fronte al tentativo, goffo, contraddittorio e intermittente di Meloni di provare a rivestire con un loden il suo progetto sovranista, che linea seguiranno il principale partito d’opposizione e il principale alleato della coalizione? Detto in modo più brutale: il Pd e la Lega avranno la forza di alzare l’asticella, di non radicalizzarsi, e di impostare, con Meloni, una dialettica finalizzata a promuovere più la difesa di un interesse nazionale che la difesa di un interesse di bottega?

 

In entrambi i casi, sia per il Pd sia la Lega, una risposta a questa domanda arriverà dall’esito di due congressi paralleli che andranno ad animare nei prossimi mesi le vite dei due partiti. Un congresso è alla luce del sole, ed è quello che riguarda la leadership del Pd, dove il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, primo caso forse di uomo di apparato che riesce a trovare lo spazio per presentarsi come lontano dall’apparato essendo la sua principale e più giovane competitor alle primarie sostenuta dalle principali correnti dell’apparato democratico, proverà a salvare ciò che c’è da salvare dalla stagione Letta (atlantismo, draghismo, anti putinismo) e proverà a sfidare Meloni puntando su una linea poco radicale, poco indignada, poco corbyniana, poco Ocasio Cortez, molto laburista e molto indirizzata a sfidare Meloni più sui doveri (agenda crescita) che sui diritti (agenda Zan). Dall’altra parte, invece, il congresso da seguire è quello che non si gioca alla luce del sole ma dietro il grande tendone della commedia leghista. Un congresso al centro del quale c’è un tema improvvisamente non più tabù che coincide con il processo privato e ora anche pubblico al segretario Matteo Salvini. 

 

Settimane fa, Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, parlando con un importante imprenditore piemontese, disse che un pezzo importante della Lega, quella del nord, non sarebbe contraria a chiedere nei prossimi mesi un passo indietro a Salvini come leader del partito. Giorgetti, non è un mistero, vedrebbe bene come leader del futuro, nella Lega, uno tra Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli Venezia Giulia, e Luca Zaia, governatore del Veneto, e l’uscita, clamorosa, fatta dal governatore veneto domenica scorsa sul Corriere, conferma che qualcosa si sta muovendo. Zaia, in una splendida intervista ad Aldo Cazzullo, ha tracciato i confini di una destra più in linea con la scienza quando si parla di vaccini (il contrario di quello che chiede Salvini), più umana con gli immigrati quando si parla di accoglienza (il contrario di quello che chiede Salvini) e più sensibile nelle politiche quando si parla di diritti agli omosessuali (il contrario di quello che chiede Salvini) e ha messo per la prima volta sotto i riflettori quelle che sono le coordinate di una destra non truce, non nazionalista e in definitiva non salviniana.

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Lo stesso giorno dell’intervista di Zaia – il quale Zaia, ovviamente, è alla guida di una Lega, quella veneta, che storicamente ha sempre avuto molti dissapori con la Lega lombarda, quella da cui vengono tutti i segretari avuti dalla Lega, e che ora, per la prima volta da molti anni a questa parte, ha scelto però di non tenere le sue idee ben nascoste nel cassetto della disciplina di partito – in Lombardia è capitata una cosa interessante. In un atteso congresso provinciale della Lega, il candidato più distante da Salvini, Fabrizio Sala, esponente politico che aderisce alla riscossa lanciata dal Comitato Nord – la corrente voluta da Umberto Bossi e scomunicata da Salvini – ha prevalso sul candidato più vicino a Salvini, Mauro Brambilla.

 

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La partita che c’è ma che non si vede nella Lega sul dopo Salvini non ha a che fare solo con una valutazione relativa ai risultati non soddisfacenti ottenuti alle ultime elezioni, sia quelle locali sia quelle nazionali. Il tema, come ha provato a spiegare Zaia, è più sostanziale, ed è grosso modo questo: ma di fronte al tentativo di Meloni, pasticciato, caotico, intermittente, di dare al centrodestra un volto meno estremista, meno nazionalista e meno anti europeista, siamo sicuri che il compito di un partito come la Lega sia quello di presentarsi di fronte ai propri elettori come il partito della nostalgia, desideroso cioè di muoversi sulla scena pubblica vestendo i panni del custode unico non dell’agenda della crescita futura ma del sovranismo perduto? Il destino del governo Meloni è incerto, accidentato, complicato, ma parte del successo dell’Italia futura dipenderà anche da qui, da due manovre parallele, dalla volontà del primo partito d’opposizione e del primo alleato della coalizione di alzare o abbassare l’asticella della competizione con una Meloni in cerca disperata di un loden per nascondere agli occhi dei propri elettori la più tossica delle agende politiche: non l’agenda Draghi ma l’agenda sovranista. È il trasformismo, bellezza.

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