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un circolo vizioso

La favola del sovranismo alimentare, che se anche esistesse ucciderebbe il made in Italy

Antonio Pascale

È diventato un concetto buono a sinistra (dove nasce) e a destra (dove approda). Ma la verità è che se ogni paese applicasse per davvero la sovranità a tavola, la prima a rimetterci sarebbe l'Italia: senza esportazione arriverebbero problemi seri. Non vogliamo l’ananas, ma siamo sempre l'ananas di qualcun altro

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Già sarebbe interessante capire se siamo padroni di noi stessi: se la nostra volontà è tutto o è poca cosa, pensate riflettere sul concetto di sovranità in senso ampio: che sia economica o alimentare, è comunque un’impresa. Pensate poi se dobbiamo rispettare il diktat: non dipenderemo da nazioni distanti da noi per dar da mangiare ai nostri figli. Dichiarazione che serve a introdurre il concetto di sovranità, diciamo così.  Che ha pure natali nobili. Nasce dal tentativo di fare rete, di dar forza agli esclusi, di far leva sulle esperienze dei singoli per valorizzarle. Significa, in origine, organizzazione dal basso, il sano bottom up invece che il solito e indigesto top down.  Ma infine, tradotto nel linguaggio agricolo e agroalimentare italiano, significa, dove possiamo, facciamo noi. Anche perché chi fa da sé valorizza non tre ma una miriade di prodotti nostrani, appetibili e produttivi.

 

Bene, purtroppo alla fine, fatti i conti, la sovranità alimentare è diventata un concetto buono a sinistra (dove nasce) e a destra (dove approda) e serve a nobilitare l’operato di alcune grandi organizzazioni agricole e culturali. Soprattutto, un modo per vivere le contraddizioni senza mai nominarle. Vuoi la filiera corta perché fa made in Italy? Sì, certo. Ma poi desideri e lotti per portare le tue bottiglie di vino, pregiato o meno, oltreoceano proprio nello stesso momento in cui contesti le pere argentine che ci abbassano la sovranità – perché, fateci caso, la distanza che c’è tra le Langhe e Santiago del Cile è la stessa che c’è tra Santiago del Cile e le Langhe, e tuttavia noi puntiamo il dito solo contro la distanza che ricoprono le pere argentine quando arrivano fin qui e cadiamo in un mutismo selettivo quando si tratta del nostro vino che parte per Santiago del Cile. Non vogliamo l’ananas, ma siamo sempre ananas di qualcun altro, come i meridionali di qualcuno, insomma. 

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Senza esportazione avremmo problemi seri, dunque speriamo che nessuno nelle altre nazioni faccia dichiarazioni così tranchant. Perché anche se pensiamo al famoso e ineffabile contadino nostro amico che a differenza dei contadini degli altri nostri amici è più bravo e fa prodotti migliori solo perché coltiva un pezzo di terra vicino a casa nostra, dunque trattasi di filiera corta, ecco anche in questo caso, quel contadino nostro amico non è pienamente sovrano: deve tener conto della fitta ragnatela che collega lui al mondo e il mondo al lui, ragione per cui la dichiarazione della Meloni, questa dichiarazione che piace, ci scommetto a destra e a sinistra, per quanto accesa e alata, pecca di sguardo miope. Il piccolo contadino, partecipe o meno di una filiera, il prodotto tipico, vanto nell’intero sistema solare, nonché ogni altra primizie o ben di Dio, sono legati ai parecchi fili senza i quali non produrremo alcunché. 

 

Quindi, comunque la mettiamo per dar da mangiare il pane ai nostri figli, ci vogliono le altre nazioni, un po’ come per fare un albero ci vuole un fiore. I concimi, gli agrofarmaci (sia quelli bio sia quelli convenzionali), le macchine utilizzate per arare, erpicare, seminare, spandere il letame, raccogliere ecc., sono prodotti globali. Se smontiamo una macchina, se verifichiamo i prodotti contenuti in un concime o esaminiamo la tecnologia grazie alla quale una molecola è più attiva contro un patogeno e innocua per noi, dunque più sostenibile, ci accorgeremo delle migliaia di persone lavorano ogni giorno affinché il contadino vicino casa nostra produca il cibo di cui poi noi andiamo orgogliosi. Il problema del concetto di sovranità? Si è partiti col difendere i contadini delle zone rurali e si è finito per sostenere e preferire i batteri di casa nostra (quelli che fanno partire la fermentazione di alcuni formaggi). Perché quelli di casa nostra sono certamente i migliori in assoluto – non tenendo conto, tra l’altro, che un batterio misura pochi micron e la differenza tra un batterio che sta a sinistra di un fiume e quelli a destra dello stesso fiume è enorme: come dalla Terra a Plutone.

Capite bene le implicazioni: se i batteri altrui rubano il lavoro a quelli nostrani (e li preferiamo perché così facendo ci sentiamo più sovrani), poi concettualmente siamo più propensi a mettere barriere a quelli che stanno fuori dal nostro orto, migranti o meno che siano, perché la loro presenza abbassa il nostro tasso di sovranità. 

Forse i richiami alla bellezza del nostro paese servono solo nelle apposite sedi. A parte che il turismo (sempre benedetto) non è un settore trainante ma è trainato, senza cittadini benestanti che girano il mondo, hai voglia di parlare dei bronzi di Riace. Quindi per far funzionare (economicamente) la bellezza ci vuole la manifattura, così come per far funzionare un piccolo orto e rendere i suoi prodotti sostenibili, buoni e disponibili a tutti non basta la carta di identità o il certificato di residenza, ma ci vogliono strumenti innovativi che da soli non ci possiamo permettere. Se vogliamo essere più produttivi e più sostenibili (cosa davvero auspicabile) bisognerebbe mettere mano a riforme strutturali (abbiamo aziende piccole e costose), insomma, disertare la vecchia e cara figura dell’aratro, simbolo di un’agricoltura antica e problematica e guardare con curiosità, interesse (e prove in campo) ai nuovi strumenti: ah, sono tutti figli di una collaborazione internazionale.

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