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criterio storico

Le balle da smontare sull'antifascismo

Giuliano Ferrara

L’antifascismo non è affatto morto, caro Ezio Mauro, e se lo fosse lo sarebbe da trent’anni. E chi esulta perché oggi “la guerra è finita” dovrebbe ripassarsi un po’ di storia. Cosa ci aspetta dopo la stagione di un vero uomo solo al comando

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Ora si dice da sinistra, con malinconia, che l’antifascismo è morto con il passaggio di consegne di Liliana Segre; da destra, con enfasi, che la guerra è finita con l’elezione alla presidenza del Senato di un politico professionista ex missino che è anche una simpatica macchietta patriottica. Due evidenti contraffazioni dei fatti.

Il delfino di Almirante è stato vicepresidente del Consiglio, presidente della Camera e ministro degli Esteri a partire dalla svolta di trent’anni fa, Berlusconi e Fiuggi, quando i missini abbandonarono, come fu detto da Gianfranco Fini, “la casa del padre”. Certo si tengono la fiamma e qualche ricordino predappiesco, ma va ricordato che nel pieno dell’eurocomunismo e della “democrazia come valore universale” Enrico Berlinguer definì “vivente e valida la lezione di Lenin” dopo un incontro con Breznev e l’uscita dalla maggioranza di compromesso storico. Le classi dirigenti italiane si impegnano a evolvere, ma sempre con giudizio. 

L’antifascismo come criterio storico e repubblicano, costituzionale, non è affatto morto, e se fosse morto, lo sarebbe da almeno trent’anni. E sempre da trent’anni o giù di lì la guerra è finita, questa non è una notizia di ieri, ne restano cimeli irrilevanti e memorie opache che confermano, con un tanto di grottesco, la superiorità della diagnosi di Gobetti e della storiografia defeliciana (il fascismo come autobiografia della nazione) su quella di Croce (il fascismo come parentesi, come invasione degli Hyksos). Ezio Mauro è affezionato all’azionismo piemontese e pensa che la Costituzione è figlia della lotta armata di Resistenza, nella purezza di una religione civile che ha retto fino alla banalizzazione larussiana del passato. Ma non è così, semplicemente le cose stanno altrimenti. Il contributo dei partigiani combattenti è stato decisivo, ma il ciellenismo, la svolta di Salerno di Togliatti, il referendum istituzionale e la Costituente sono stati un processo politico complicato, una serie di compromessi che hanno instaurato un assetto civile discorde e consociato, non una religione civile, sopravvissuto alla rottura degasperiana, all’anticomunismo della Guerra fredda e dell’atlantismo, al primato d’opposizione e consociativo del Pci e alla formazione del Msi. La storiografia ha poi dimostrato traumaticamente che l’autobiografia della nazione comprendeva anche parte della nazione antifascista, da Leopoldo Piccardi a Norberto Bobbio a mille altri casi.

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La nostra è una storia di trasformazioni in cui la rottura, il coraggio civile personale di tanti, ha innescato ulteriori trasformazioni. La figura femminile della destra ex missina destinata a reggere il timone del governo esprime tra l’altro un salto di generazione. Fidarsi del successo dell’operazione che Meloni incarna è oggi un’ipotesi avventata, ma sulla sua legittimità politica non esistono obiezioni possibili. Nonostante le fesserie inanellate su questa formula dalle varie accozzaglie, usciamo, questa è la verità, da una parentesi di “uomo solo al comando”, che si è rivelata istruttiva e benefica per gli interessi del paese. Si torna a un governo di coalizione sotto auspici non proprio lineari o esaltanti, ma non ci sono alternative e fughe ideologiche che tengano, provare per credere, wait and see.

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