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Spendere in guerra

L’altro whatever it takes che serve

Giuliano Ferrara

Consiglio a Giorgia Meloni e Liz Truss: usare il gran discorso di Draghi sul debito buono. Per evitare di trasformare una recessione imminente in una prolungata depressione

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Stiamo ripassando dal debito buono, icastica formula con cui Mario Draghi definì i nuovi compiti della finanza pubblica, in un articolo del Financial Times durante la pandemia da Covid, al solito “debito cattivo”.

 

 Dicono i benpensanti dell’economia finanziaria: “Non puoi, caro potere politico, finanziare la crescita, la ripartenza e lo slancio del business, la produttività, gli investimenti, facendolo a debito, tagliando le tasse drasticamente e sostenendo imprese, salari e consumi con la deregolamentazione. Non importa che cosa tu abbia promesso, quale sia il tuo mandato, quali siano i bisogni reali imposti da postpandemia, guerra, spettacolare incremento del costo dell’energia e delle materie prime, perché i mercati privati ti guardano e ti sfiduciano, la moneta si indebolisce e i rendimenti delle obbligazioni crescono a dismisura, l’inflazione si consolida a livelli intollerabili”.

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Tutti inoltre arieggiano la bocca con la necessaria “autonomia della politica”, e con il nuovo ruolo dello stato e dei finanzieri pubblici che scelsero nell’emergenza la strada detta “accomodante” del Quantitative easing, sempre sulla scorta della giustamente celebrata campagna per la salvezza dell’euro condotta dal capo della Banca centrale di Francoforte, salvo mettere in guardia contro l’inflazione, salvo segnalare con allarme il disamore degli investitori per bilanci sovraccarichi, la crescita delle diseguaglianze, il pericolo per i fondi pensione, e il rischio di tagli alla spesa pubblica a compensazione della riduzione del giogo fiscale su famiglie e imprese.

Mi adeguerò all’andazzo improvviso, quando Liz Truss e Kwasi Kwarteng (premier e ministro del Tesoro britannici) si piegheranno agli ordini secchi del Fondo monetario internazionale, che si aggiunge alla quasi totalità delle voci liberal tra gli economisti nel trattare la Gran Bretagna come la Grecia dei conti truccati: rivedete i tagli, niente debito. Mi adeguerò quando il prossimo esecutivo italiano avrà dato esecuzione alle indicazioni di mainstream ricevute da ogni parte con sonoro anticipo: nominare all’Economia un ministro che non tocchi il fisco e si faccia severo custode del deficit di bilancio. Mi adeguerò quando sarà restaurata la regola “stupida” (come diceva Romano Prodi) della zona euro (il 3 per cento di deficit, salvo eccezioni di tanto in tanto), sospesa nell’epoca forse già finita, appunto, del debito buono.

Anche se la Truss dice che il carico fiscale nel Regno Unito è il più alto da settant’anni in qua, e mantenendolo a quel livello non ci sono crescita, domanda, consumi, investimenti e business produttivi che tengano, non mi sembra che si debba tornare a cavillare sui diagrammi del reaganismo, che male all’America e al mondo non ha fatto, o sulla rivoluzione thatcheriana, che inseguiva il possente mito dell’individualismo, contro un’idea totalizzante di società, e dell’azionariato popolare attraverso privatizzazioni e varie. Ripartirei molto più semplicemente dalle idee aggiornate esposte da Draghi il 25 marzo del 2020, non un secolo fa, nel suo manifesto, come dire? neokeynesiano (il liberismo c’entra e non c’entra).

Fossi stato Kwarteng, o se è per questo Meloni, lo avrei citato integralmente a Westminster presentando il potente taglio fiscale a debito, e veda un po’ la probabile nuova presidente del Consiglio di rileggerselo prima della nomina del nuovo titolare del Tesoro e del discorso sulla fiducia. Draghi, che è freddo e coscienzioso come dev’essere un banchiere politico e gesuita, scrisse un manifesto focoso, appassionato, pieno di urgenza e di combattività per convincere la comunità istituzionale e finanziaria della necessità di cambiare registro decisamente, di fare di tutto, con lo strumento del debito pubblico e delle garanzie di stato all’immissione di liquidità necessaria nel sistema, per evitare di trasformare una recessione imminente (ripeto: siamo nel marzo 2020) in una prolungata depressione. Era un appello che riguardava il ruolo delle banche, delle corporation, e che subordinava le politiche pubbliche in economia alle necessità impellenti della politica di salvezza europea e internazionale, con tempismo e vigore, all’insegna del debito buono.

Il paragone storico per convincere era la guerra, le grandi guerre europee, che sempre avevano determinato una curvatura radicale del ruolo dello stato nell’economia. Quella ricetta strategica per uscire dalla pandemia acuta dei lockdown aveva funzionato, con margini di crescita e ripartenza impressionanti che avevano consentito perfino il profluvio dei bonus. Ora abbiamo anche la guerra, con il ricasco drammatico e depressionario dell’ibrido tra mezzi blindati e mezzi di ricatto e dissesto nel mercato energetico, famiglie e imprese alla canna del gas. Invece di stare a fare le pulci a quel massiccio e sorridente uomo nero che fa il cancelliere dello Scacchiere e decide di eseguire il programma di governo in tempi fulminei, mi sembrerebbe giusto aggrapparsi ai fondamentali dell’emergenza per ribadire: debito buono, whatever it takes.

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