botti di fine governo

Draghi litiga col Senato, che litiga con se stesso. Conte tiene tutti sotto ricatto, poi l'intesa

Valerio Valentini

Una giornata intera a negoziare quel che il premier non è disposto a concedere: "Non chiedetemi condoni tombali sui crediti, non se ne parla". Il M5s non rinuncia alla sua propaganda, e spinge gli altri partiti ad assecondare l'azzardo: "Non regaleremo ai grillini questo spot elettorale". Le mediazioni col Mef, poi s'intravede un'intesa. Ma sui dettagli si lavorerà tutta la notte

Quando le ombre della sera s’allungano ormai sui corridoi di Palazzo Madama, su una sola cosa si è davvero d’accordo: “Vedrete che la notte porterà consiglio”, dicono tutti. Lo dicono i responsabili dei partiti di maggioranza impegnati da ore in una negoziazione estenuante; e lo dicono i consiglieri di Mario Draghi. E però gli uni e gli altri interpretano quell’auspicato sussulto di ragionevolezza tardiva come una resa della controparte: gli uni e gli altri, di nuovo, in conflitto tra loro. “No, l’intesa sul Superbonus non c’è, qui rischia di saltare tutto”. A renderlo esplicito, a metà pomeriggio, è il sottosegretario leghista all’Economia, quel Federico Freni che s’era detto fiducioso, lasciando il Senato, di poter convincere il premier. Sennonché, nel frattempo, il suo stesso ministro, dopo l’ennesimo consulto con Palazzo Chigi, lo informava che no, la mediazione non reggeva. “Draghi non cede”.

“E non si vede perché dovrebbe”, dicono a Palazzo Chigi. Dove, semmai, si stupiscono dello stupore, si meravigliano che qualcuno ci avesse creduto davvero, nel convincere il premier ad accettare quel che aveva sempre rigettato: “Sul Superbonus non avallerò queste sconcezze”. E insomma era un po’ come se il paradosso di questa maggioranza di governo, se l’incomunicabilità tra il vertice dell’esecutivo e i partiti che lo sostenevano, si riproducesse una volta di più, e in misura esasperata: perché ormai neppure le reciproche armi della deterrenza funzionano più. “Ché Draghi non può certo ricattarci dicendo che si dimette”, se la ridevano i senatori grillini. “E di certo più caduti di così, i partiti non possono minacciarci di cadere”, replicavano, sornioni, al Mef. E allora lo scenario, a sera inoltrata, appare proprio quello di un Parlamento che finalmente si ribella, in un moto di scombiccherata rivendicazione delle proprie prerogative, alla fermezza di Draghi, il quale a sua volta le ragioni della politica che cede alla propaganda non acconsente di riconoscerle, neppure ora che in campagna elettorale la propaganda è tutto. Del resto Davide Faraone, capogruppo renziano al Senato, giorni fa aveva avvisato i colleghi: “Se sul Superbonus non si trova la quadra, nessuno pensi che regaleremo al solo M5s questo spot elettorale”. 

La norma varata dal premier e dal ministro Franco nel dl Aiuti bis, con l’intento di combattere le truffe legate ai bonus edilizi, e per evitare che questo traffico di crediti si trasformasse in una moneta virtuale, s’è risolta in una stretta  che ha ingessato il mercato, e molte imprese si ritrovano ora allo scoperto. Il M5s, allora, ha presentato un emendamento che concede grossi margini di manovra, nella cessione dei crediti, a banche e privati, con l’ulteriore pretesa di sollevarli retroattivamente da ogni responsabilità in solido in caso di illeciti pregressi. A Palazzo Chigi non hanno neppure voluto leggerla, la bozza: “Questo è un condono tombale, non se ne parla”.
E allora qualcuno, in quel  pensatoio che era ieri la sala Koch di Palazzo Madama, con senatori che facevano la fila per perorare la propria causa coi tecnici del Mef, intorno alle tre del pomeriggio, dopo una prima riunione presieduta dal ministro Federico D’Incà, s’è convinto che bastasse  escludere da questa esenzione generalizzata i casi di dolo e colpa grave per indurre Draghi alla capitolazione. E però, quando alle sette della sera i lavori sono ripresi, Freni ha ufficializzato che no, la quadra non c’era. “Ma così il governo andrà sotto, perché nessuno ci sta a passare per nemico delle imprese, mentre Conte va in giro a fare comizi in cui si vanta di aver fatto ristrutturare a tutti le case gratuitamente”, è sbottata allora la forzista Maria Gallone.

E insomma a ora di cena, lo stallo  – che investe la norma sull’introduzione del docente esperto nelle scuole, per cui ballano i fondi del Pnrr – persiste: e al vaglio di Palazzo Chigi resta un’ulteriore riformulazione in cui si estende anche alle cessioni dei crediti antecedenti al novembre 2021 le guarentigie attuali, a patto che le nuove operazioni fiscali vengano asseverate ora per allora da un tecnico responsabile. Estrema mediazione, su cui un’intesa con Palazzo Chigi pare poter maturare davvero, per evitare  di azzoppare il dl Aiuti, e l’erogazione dei sostegni a famiglie e imprese che ne consegue.

Il tutto, coi partiti che faticano a tal punto a controllare le truppe, e le pulsioni elettorali che le attraversano, che perfino la presenza in Aula di parlamentari che garantiscano il numero legale è incerta. Domani, sulla variazione di bilancio, al Senato servono 161 Sì; giovedì, alla Camera, 316. E talmente è scivolosa, la questione, che ieri i responsabili d’Aula della Lega hanno specificato sulle chat degli eletti che non si scherza: “Considerata l’importanza dei provvedimenti, la presenza si intende obbligatoria”. Basterà? D’Incà si stringe nelle spalle, come chi non si sbilancia. “Ché i parlamentari esclusi dalle liste non rispondono più a nessuno; quelli messi in lista, sono a fare campagna elettorale”.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.