La corrispondenza di sensi tra Giorgetti e Calenda, che accarezzano la suggestione del Draghi bis

Valerio Valentini

Il ministro leghista segue le mosse del leader di Azione: "A lui gli imprenditori diranno le stesse cose che dicono a me", e cioè che sarà difficile per la destra governare. I timori per lo strapotere della Meloni, che vagheggia il 30 per cento anche a discapito degli alleati. "Ma a questo punto, perché non confermare l'attuale premier?", dice il leader del terzo polo

Più che un dialogo reale, è una corrispondenza che non si dirà di sensi, tanto meno amorosi, ma di vedute, ecco, quello sì. Perché Giancarlo Giorgetti, nell’apparente scelleratezza dei ripensamenti di Carlo Calenda, una logica ce la vede. E del resto, come il ministro dello Sviluppo ha detto ai suoi confidenti, “gli imprenditori con cui cui mi confronto dicono a me quello che diranno anche a lui”, cioè a quel leader di Azione che al vertice di Palazzo Piacentini c’è già stato. E il senso dei ragionamenti che amministratori  delegati di grandi aziende pubbliche e private condividono col vicesegretario della Lega sta nel timore per l’autunno che verrà, e la buriana economica e sociale che pare doverlo accompagnare: che insomma un governo che non sia guidato da gente esperta, e che non abbia una solida reputazione internazionale, e che non sia immune dalle tentazioni propagandistiche che sempre connotano i neofiti del potere, si ritrovi ad annaspare e a far vacillare il paese. E Calenda, che queste riflessioni le va facendo da tempo, quando gli è stato riferito di ciò che Giorgetti pensa di lui, e delle sue scelte, non s’è affatto scomposto: “Se Giorgetti ritiene che nessuno dei due schieramenti, trascinati dalle componenti più populiste, sarebbe in grado di governare da solo, io credo abbia ragione. E lo credono anche molti imprenditori”.

Ovviamente, il ragionamento che in teoria è applicabile a entrambe le coalizioni, nella realtà dei fatti riguarda solo la destra, visto che su una ipotetica vittoria del Pd e dei suoi alleati, al momento, nessuna persona accorta scommetterebbe. E questo dice, insomma, qualcosa dei timori che agitano una parte della Lega, e che non sono estranei neppure dalle parti di Arcore. Perché il successo che pare scontato, potrebbe non essere così definitivo da assicurare una maggioranza inscalfibile al Senato; e perché la straripante ascesa di Giorgia Meloni, se davvero si consumerà come sembra anche a discapito degli alleati, rischia di destabilizzare la stessa  coalizione. La leader di FdI un po’ ci scommette sulla sua apoteosi: sogna di sfondare la soglia del 30 per cento, anche a costo di annichilire un Matteo Salvini che oscilla paurosamente, nelle previsioni che circolano a Via della Scrofa, intorno al 10 per cento.

Ed è qui che sta il fondo dei timori di chi, nel Carroccio come in FI, ritiene di non dovere affatto disconoscere l’eredità di Mario Draghi: “Davvero – si chiedono – ci conviene rassegnarci al ruolo di gregari della Meloni?”. La domanda è circolata anche dalle parti di Cazzago, dove Giorgetti è rimasto in questi giorni in attesa della definizione del risiko delle liste, nelle cene elettorali consumate intorno a Varese con militanti e dirigenti locali. E chissà se anche lì, in terra insubre, si è arrivati alle stesse conclusioni a cui è giunto Calenda: “Che se davvero Giorgetti condivide questi timori sul futuro, e se davvero crede che serva un governo forte e autorevole retto da una maggioranza ampia, chi meglio di Draghi, per portare avanti il lavoro di Draghi?”. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.