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Cosa vuol dire un Salvini al Viminale? Ripassino per non dimenticare

Claudio Cerasa

Abbiamo già visto di cosa è capace alla guida del ministero dell’Interno: il suo contributo al governo dell’immigrazione non ha risolto i problemi dell’Italia ma li ha peggiorati. Parole e circostanze da ricordare

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Salvini al Viminale? Scusate, ma di che diavolo stiamo parlando? Da qualche giorno a questa parte, il dibattito interno al centrodestra ruota attorno a un problema magnificamente affrontato da Salvatore Merlo sul Foglio di mercoledì. Il centrodestra è in vantaggio, ok, i sondaggi vanno bene, ok. Ma Salvini, in caso di vittoria, dove cavolo lo mettiamo? Salvini ha tentato di rompere il ghiaccio e si è autocandidato laddove ha già operato: il Viminale, what else. In molti in questi giorni hanno tentato di motivare l’incompatibilità di Salvini con il Viminale scommettendo sulla carta del razzismo, della xenofobia, della minaccia per la democrazia. Ma in molti si sono dimenticati di considerare l’operazione Bakun, l’operazione cioè messa in campo qualche mese fa dal sindaco polacco di Przemysl che con la forza di un’immagine e di una maglietta ha messo Salvini di fronte al suo passato, inchiodandolo.

Per capire perché immaginare Salvini al Viminale è un’operazione di fantapolitica non serve dunque scendere sul terreno della difesa della democrazia, ma è sufficiente calpestare il terreno della realtà e delle immagini del passato. E se si sceglie di utilizzare questo piano si capirà facilmente che il problema di immaginare Salvini al Viminale è che abbiamo già visto di cosa è capace Salvini, o meglio di cosa non è capace, alla guida del ministero dell’Interno.

 

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E l’esperienza ci dice con chiarezza che il generoso contributo offerto da Salvini al governo dell’immigrazione è servito non a risolvere ma a peggiorare in prospettiva i problemi dell’Italia. Un piccolo ripasso può essere utile. Salvini, da ministro, e anche da vicepremier, è stato quello che non ha battuto ciglio quando il suo governo, al Consiglio europeo del giugno 2019, ha creato le condizioni per non modificare un trattato importante, quello di Dublino, in base al quale il primo paese di accesso deve essere quello in cui il migrante presenta la richiesta d’asilo. E lo ha fatto accettando il principio, imposto dai paesi di Visegrád in quel Consiglio europeo, in base al quale, da quel momento in poi, ogni modifica di quel trattato sarebbe stata decisa dai paesi dell’Unione europea all’unanimità (è sufficiente dunque che uno dei paesi europei amici di Salvini ponga il veto alla modifica del trattato per non modificarlo più).

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Salvini, da ministro, è stato quello che ha sostenuto l’inutilità della missione “Sophia”, la missione europea di contrasto al traffico di esseri umani nel Mediterraneo, e da ministro disse che quella missione si sarebbe potuta e dovuta concludere in qualsiasi momento,  avendo quel progetto “come ragione di vita che tutti gli immigrati soccorsi vengano fatti sbarcare solo in Italia”, senza sapere che in realtà il mandato di “Sophia” non prevedeva il salvataggio dei migranti bensì unicamente la lotta a scafisti e trafficanti d’armi e l’addestramento della Guardia costiera libica, indispensabile per fare quello a cui Salvini non è mai stato interessato: occuparsi di come governare i flussi che partono dalla Libia. Salvini, da ministro, come abbiamo già avuto modo di ricordare su questo giornale all’inizio del 2019, stanziò nel suo primo decreto Sicurezza tre milioni di euro per i rimpatri, dopo che in campagna elettorale aveva promesso di stanziarne 42. Salvini poi, poco prima di diventare ministro, promise che avrebbe rimandato indietro nel giro di poco tempo 500 mila irregolari, ma seguendo il ritmo dei rimpatri registrato durante quel periodo di governo, 20 al giorno, per mantenere quella promessa, irrealizzabile, sarebbero serviti circa 70 anni.

Salvini, poi, promise che avrebbe fatto diminuire il numero degli irregolari, ma l’effetto del suo primo decreto Sicurezza, che avrebbe voluto trasformare in irregolari i richiedenti asilo, fu di segno opposto. E secondo le proiezioni Ispi, quel decreto avrebbe portato il numero degli irregolari da 500 mila a 620 mila. Diciamo “avrebbe” perché la caratteristica delle leggi targate Salvini è stata quella di essere leggi non solo controproducenti ma anche fuori dalla realtà giuridica, per così dire. E il 9 luglio del 2020, come molti di voi ricorderanno, la Corte costituzionale, dopo molte sentenze di tribunali e corti d’appello che nei mesi precedenti avevano accolto ricorsi di immigrati ordinando ai comuni di procedere alla loro iscrizione nelle liste anagrafiche, ha affermato che il primo decreto Sicurezza, voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, è incostituzionale per violazione dell’articolo 3 della Costituzione. Salvini, da ministro, è stato quello che non è riuscito a cambiare in Europa un solo trattato che aveva promesso di cambiare (anche perché cambiare i trattati senza andare ai vertici dei ministri dell’Interno europei è difficile: Salvini, in un anno, partecipò a una sola riunione, le altre le lasciò tutte al suo vice Nicola Molteni).

E’ stato quello che non è riuscito a imporre tra i paesi europei una solidarietà diversa dalla volontarietà della redistribuzione (e anzi, minacciando di chiudere i porti e di costruire un’Europa alternativa con i campioni dello sfascismo europeo ha reso ancora più difficile la creazione di un fronte comune europeo per governare l’immigrazione con regole ispirate alla solidarietà). E’ stato quello che ha cercato in tutti i modi ogni volta che ne ha avuto occasione di sabotare il diritto del mare, convinto che il volere di un ministro contasse più di un trattato internazionale (se gli elettori mi hanno dato il mandato di bloccare l’immigrazione io la blocco anche a costo di violare le regole). E’ stato il ministro che ha ammesso di aver bloccato in mare una nave della Guardia costiera, la Diciotti, “al fine di verificare la possibilità di un’equa ripartizione tra i paesi dell’Ue degli immigrati a bordo della nave Diciotti e questo obiettivo emerge con chiarezza dalle conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno del 2018” (Salvini lo ha scritto nella sua difesa nel processo che ha avuto a carico ammettendo dunque di aver utilizzato esseri umani come moneta di scambio per trattare con Bruxelles).

E’ stato il ministro che ha spinto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a manifestare il suo esplicito dissenso sul tema della gestione dell’immigrazione con una lettera inviata l’8 agosto del 2019, tre anni fa, ai presidenti delle Camere, all’interno della quale, riferendosi ai contenuti del decreto Sicurezza appena approvato, il capo dello stato fu costretto a ricordare l’ovvio: il dovere, o meglio l’obbligo, di rispettare i trattati internazionali e il dovere da parte di un governo di ricordare che salvare le vite umane non è un dovere negoziabile: “Ogni Stato – scrisse Mattarella – deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizione di pericolo”. Disse un importante politico nell’agosto del 2018: “Sì, è vero. Salvini, in campagna elettorale, ha promesso il rimpatrio di 500 mila clandestini, e onestamente l’ha sparata grossa”. Quel politico, che aveva fiuto e sguardo lungo, non era un avversario di Salvini ma un suo alleato: l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti. Salvini al Viminale? Abbiamo già dato. Abbiamo già visto. Abbiamo già provato. Grazie, ma anche no.
 

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