I consiglieri dei principi-1

Quando Meloni (Marco) fa rima con Letta. Ritratto del consigliere storico del segretario Pd

Verso il voto, con un background diccì, tra think tank e campagna "casa per casa"

Marianna Rizzini

Classe 1971, è sardo di Quartu Sant’Elena, ex giovane diccì, avvocato, fan di Renato Soru, anti-renziano doc. I “ragazzi del terzo piano” del Nazareno e gli amici fidati di Letta, tra Filippo Andreatta e i “VeDrò e Arel boys”

 “Come si fosse fermato il tempo: nel 2004, quando Enrico Letta si è candidato alle Europee, lui era già praticamente nel ruolo che ha oggi”. “Lui” risponde al nome di Marco Meloni, classe 1971, oggi coordinatore della segreteria nazionale del Pd e a dir poco consigliere di Enrico Letta, nel senso, dice un amico di entrambi, “che a volte, in questi giorni soprattutto, si fatica a capire dove finisce Marco e dove comincia Enrico” (per esempio ieri, giorno in cui Letta ha annunciato su Twitter “una campagna casa per casa e strada per strada, e ad agosto nelle periferie”, e nel Pd c’è chi ha commentato “come dice sempre Marco”).

 

Ma non è neanche del tutto così, specifica un esperto di mondi dem: “C’è anche l’altro lato del triangolo amicale e politico, pure se non così visibile: Filippo”. Filippo risponde al nome di Filippo Andreatta, professore ordinario di Scienza Politica all’Università di Bologna nonché figlio di Beniamino. Ci sono adesso le liste elettorali da compilare in fretta e c’è lui, Marco, che al Nazareno con Enrico dovrà ingegnarsi prima e dopo Ferragosto (“d’altronde non è un problema per Meloni”, dice un esponente del partito: “Marco ha sempre lavorato d’estate e ha un lunga lista di ‘to do files’ aperta e aggiornata”). E ci sono i perimetri delle alleanze da disegnare e ridisegnare, anche in base a quello che faranno gli altri partiti tra una settimana, nonostante le parole dette in queste ore (vedi Carlo Calenda e Matteo Renzi), e per questo Meloni e Andreatta stanno al telefono con Letta “un momento sì e l’altro pure”, scherza un veterano Pd che intanto segnala l’esistenza, come staff allargato, dei cosiddetti “ragazzi del terzo piano”, quelli che il segretario, tornato da Parigi dopo gli anni dell’esilio a valle del celebre detto renziano “Enrico stai sereno”, si è portato dall’estero ma anche dalla Scuola di Politiche diretta proprio da Marco, colui “che a Renzi oppose il gran rifiuto”, è la battuta che circola nella sede Pd con riferimento al voto negativo sull’Italicum, quando Meloni era deputato e il leader di Italia Viva presidente del Consiglio, dopo il non sereno avvicendamento con Letta. 

 

Ma perché Marco ed Enrico si sono scelti? E qui le motivazioni affondano tutte nella relativamente lontana notte dei tempi democristiana (giovani diccì), quando l’uno e l’altro iniziavano a muovere passi volontari nell’arena che poi li vedrà uno in prima linea e l’altro per così dire al desk, in un dietro le quinte non necessariamente nascosto: Meloni è stato infatti deputato e prima ancora consigliere regionale nella sua Sardegna (è di Quartu Sant’Elena), e a monte anche coordinatore della campagna di Letta per la candidatura alle primarie pd poi vinte da Walter Veltroni, nel 2007, e segretario regionale dei Giovani Popolari, prima dell’iscrizione all’allora Margherita, avvenuta nel 2001. Tuttavia una leggenda popolare che filtra dalle finestre del Nazareno narra di una comunione di vedute tra Marco Meloni ed Enrico Letta anche dovuta all’ironia caustica del primo, molto amata dal secondo, fan delle battute essenziali del testardissimo amico isolano.

 

Uno che fin da bambino, e precisamente dal giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, voleva dedicare la propria vita alla politica, avendo anche assorbito una certa dose di passione dal padre (con cui il piccolo Meloni guardava telegiornali anche prima di saper leggere e scrivere). Avvocato, Marco Meloni, nella geografia lettiana, sta come “le braccia stanno al corpo”, dice un’amica, visto anche l’impegno profuso dall’ex deputato nel reperimento finanziamenti per le creature internazionali e pensatoi ideati dal segretario pd, l’Italia-Asean e la Budapest European Agora. Ci sono poi altri punti di riferimento, cui Marco ed Enrico fanno alternativamente e amichevolmente capo per un confronto di idee: Simone Guerrini, direttore dell’ufficio segreteria del Quirinale, pisano come Letta e come Letta ex fuorisede a Roma (hanno condiviso anche l’affitto di un appartamento nei primi tempi nella capitale); Michele Bellini, capo staff di Letta, già suo assistente universitario a Science Po e Monica Nardi, portavoce storica e plenipotenziaria della comunicazione.

 

Ma anche se Letta, in questo periodo, intrattiene buoni rapporti in altre aree del Pd (in particolare con il sindaco di Firenze Dario Nardella e con i governatori dell’Emilia e del Lazio Stefano Bonaccini e Nicola Zingaretti), è allo staff, e dunque al combinato disposto Meloni-Nardi-Bellini, che nelle ore concitate del post-addio di Mario Draghi ogni tensione ha fatto capo (“Meloni filtra e risolve”, dice un esponente pd). D’altronde, come scriveva Daniela Preziosi sul Domani, tempo fa, Meloni è il Marco cui ci si riferisce quando al Nazareno si risponde “chiedi a Marco” (per qualsiasi cosa, da quando Letta è segretario). Ma già dal 2001, raccontano, Meloni faceva parte di quel nucleo di amici-colleghi che poi Letta avrà accanto a sé nel think tank VeDrò e nell’agenzia di ricerche Arel.

 

Le presentazioni le aveva fatte anni addietro, in Sardegna, Francesco Sanna, ultimo segretario nazionale dei Giovani democristiani, poi senatore e deputato Pd, stimato da Letta, in stretta collaborazione con l’ex viceministro degli Esteri Lapo Pistelli. E se tra VeDrò e Arel sono cresciute anche l’ex ministro Pd Marianna Madia e l’ex europarlamentare Alessia Mosca, ponte comunicativo lettiano verso l’area del sindaco di Milano Beppe Sala, sui territori sono molto ascoltati dal segretario gli emiliani Marco Barbieri, già presidente del Centro Studi Emilia Romagna, e il consigliere regionale Massimo Bulbi. Fatto sta che ogni via riporta a Meloni, il Marco che i giornalisti, pur conoscendone il ruolo, non interpellano, tanto è noto lo spin che il suddetto rifila a chiunque passi nei momenti delicati davanti alla sua scrivania: “Beh, io oggi alla stampa non risponderei”. Ritornello che affonda nei peggiori momenti lettiani, prima e dopo il passaggio della campanella con Renzi a Palazzo Chigi, ma anche nei migliori exploit del Meloni che in prima persona, quando si candida, fa il record di preferenze, ma preferisce se possibile non dichiarare alcunché a margine di dibattiti e comizi.

 

“Non che sia davvero un timido, di certo non sui cavalli di battaglia”, dice un ex collega dei tempi di TrecentoSessanta, associazione di cultura politica di cui Meloni è stato cofondatore e segretario generale. L’attuale coordinatore pd era noto già allora, infatti, per esternare la sua ossessione per un partito “non chiuso”. Tema chiave, detto con parole sue da Meloni anche all’indomani del 4 marzo 2018, non proprio un giorno di trionfo per il Pd alle Politiche: “Se ti vota solo il dieci per cento dei disoccupati, degli operai, dei giovani, e se vinci solo nel centro di Roma, Milano, Torino e Bologna, vuol dire che non hai capito le esigenze vere delle persone. Ormai ci votano i pensionati e i benestanti”. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti del Pd che oggi, con Letta, si appresta a trasformare il campo largo in campo aperto senza i Cinque Stelle, non fosse altro che per il ritorno dell’ex premier da Parigi, cosa che, nell’ottica di Marco Meloni, è stata praticamente una Nemesi in purezza.

 

Non è un mistero infatti che l’anzi-renzismo del coordinatore sia cresciuto negli anni attorno alla declinazione “Renzi ha sbagliato linea”, anche se poi, una volta tornato Letta in Italia, è stato Meloni il trampolino e il motore giornaliero dell’operazione di conquista interna morbida del partito – morbida cioè non improntata, almeno non apparentemente, a un rapido spoils system: “Superare le logiche correntizie”, era la frase preferita detta in pubblico da Letta e in privato da Meloni, democristiano nel metodo e convinto che il Pd debba inglobare via via le possibili anime democratiche e riformiste.

 

Prodiano e ulivista delle origini, Meloni ha alle spalle l’esperienza molto sarda, ma a suo modo nazionale, dell’affermazione e poi della sconfitta di Renato Soru. Era il 2009, Soru era in corsa alla Regione per la riconferma (poi battuto da Ugo Cappellacci) e Meloni, alla vigilia del voto, scriveva: “Due giorni per decidere, nella coscienza di ciascuno e nella volontà collettiva del popolo sardo, il futuro della nostra terra. Due giorni che arrivano al termine di una campagna insolitamente breve, ricca però per me di occasioni di confronto e di crescita. Al di là dal risultato elettorale, guardo a queste ultime settimane con grande soddisfazione. In poco più di un mese abbiamo avuto modo di discutere dei risultati raggiunti durante la scorsa legislatura, di approfondire i temi prioritari per i prossimi anni, di presentare il programma. L’ho fatto in quasi cinquanta iniziative pubbliche, nelle quali tantissime persone hanno potuto dialogare, e abbiamo insieme potuto ascoltare e confrontare idee, sensibilità e progetti…”.

 

Il suo faro, racconta un esponente del Pd locale, “era l’impegno con l’elettore, un pallino di Meloni che girava dicendo ‘mi assumo questo impegno, mi assumo quest’altro impegno’ di fronte a voi’ ”. Si confrontava anche con gli internauti, Meloni, “da quasi neofita di Facebook”, racconta divertito un compagno di partito. Allora neanche quarantenne, infatti, il futuro deputato scriveva sul suo sito che, grazie al social network, aveva potuto dialogare, per la candidatura a consigliere regionale, “direttamente con tantissime persone: conoscevo la potenza di questo strumento, ma davvero non avrei mai pensato che in un mese questo sito sarebbe stato visitato oltre diecimila volte, e da oltre ottomila persone. Spero sia stato possibile conoscere meglio ciò che ho fatto, che sia stato uno dei modi per fare di questa campagna elettorale ciò che noi avremmo desiderato che fosse: un confronto tra diverse proposte per il futuro della Sardegna, un modo per conoscere meglio il lavoro di questi anni al governo della Regione, per poi decidere liberamente quale governo dare alla nostra isola. Noi abbiamo provato a farlo. La destra ha preferito sempre parlare d’altro, non fare mai proposte concrete ma organizzare solo una calata mai vista prima, sempre a spese dello Stato ovvero nostre, di ministri e sottosegretari venuti qui a tentare di incantarci e ingannarci con promesse che non potranno mai mantenere. Ciò nonostante crediamo di essere riusciti a far conoscere molte delle cose fatte, e molto del progetto che abbiamo in mente per la Sardegna. Una Sardegna che ce la vuole fare con la sua forza, la cultura e l’operosità dei suoi cittadini, e che non vuole affidare il suo destino all’ultimo dei colonizzatori, che non ha mai fatto nulla per noi, e nulla mai farà”.

 

Aveva scritto allora un diario elettorale, Meloni, e chissà se lo aggiornerà oggi, nel momento in cui, con ben altra destra, il Pd lettiano, in campo aperto, si deve confrontare. 


 

Di più su questi argomenti:
  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.