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Salvini e Meloni già litigano per Lombardia e Sicilia. E il Cav. striglia i due "ragazzotti"

Valerio Valentini

La scoppola di Verona accende lo scontro per il Pirellone. Salvini e Giorgetti in soccorso di Fontana, che però vede il fantasma della Moratti. E poi c'è la Sicilia. La leader di FdI accusa i leghisti. E Berlusconi, da Arcore, prova a fare ordine

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Giancarlo Giorgetti, che aveva fiutato l’aria, domenica sera, a urne ancora aperte, aveva provveduto a catechizzarlo, Attilio Fontana. Ché “se ti mostri convinto tu, si convincerà anche Matteo”, diceva il ministro dello Sviluppo, durante la serata di festa padana a Oggiona, in provincia di Varese, al presidente uscente, forse rientrante, di certo tentennante. Che in effetti la scelta di ricandidarsi, dopo mille ripensamenti, l’ha ufficializzata da tempo. E però da allora continua a vedere fantasmi, intorno a sé. E Ignazio La Russa, con perfida lucidità, si preoccupa di renderglieli più concreti, più minacciosi. “Fossi in Fontana mi chiederei come mai se una come Letizia Moratti si fa avanti: evidentemente è perché ha capito che quella di Attilio non è ancora la candidatura decisiva”. E allora si capisce perché ieri Salvini s’è affrettato a blindarla. Pensando forse, così, di aver sistemato i conti con Giorgia Meloni anche in Sicilia. E invece la questione s’è ingarbugliata ancora di  più; pure perché il Cav. stavolta ha deciso di non restare a guardare.

Dicono tutti di volere la pace, tanto più dopo la scoppola dei ballottaggi. Ma la pace, i tre belligeranti alleati del centrodestra, la vogliono ciascuno a modo suo. E allora finiscono col litigare più forte. Berlusconi ieri, riunendo i vertici di Forza Italia ad Arcore, ha recitato la parte di quello che magari non vorrebbe (“ma chi me lo fa fare?”), ma deve ancora dire la sua. Anche perché l’ultima volta che ha lasciato fare “i due ragazzotti”, e questo non è che il più carino tra gli epiteti, quelli si sono incartati da soli e se ne sono venuti fuori con Michetti e Bernardo, candidati a Roma e a Milano. Perché è vero che alle politiche sarà tutta un’altra storia, rispetto a questo turno estivo di amministrative, e lì il centrodestra parte avvantaggiato. E però, ha ammonito il Cav. con metafora calcistica, “si possono anche sbagliare dei tiri a porta vuota”. E quindi? “E quindi si fa carico il Cav. di essere quello che ragiona, visto che gli altri due, Matteo e Giorgia, sono affaccendati nella competizione interna”, spiega Paolo Barelli, capogruppo azzurro alla Camera, all’uscita dal summit forzista.

E non parla a caso. Lo sa bene chi domenica ha visto la Meloni brandire l’intervista rilasciata da Salvini per attaccare Federico Sboarina, il sindaco di Verona che tentava – invano, s’è capito poi – la riconferma. “A urne aperte, un attacco al tuo stesso candidato: roba da non crederci”, ringhiava lei, mentre i suoi collaboratori completavano il ragionamento: “Evidentemente nel centrodestra c’è chi ha scommesso sulla sconfitta di Sboarina così da poterla accollare tutta a Giorgia”. E insomma dalle parti di Via della Scrofa l’operazione leghista la bollavano così, con romanesca laconicità: “Un’infamata”.

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Salvini, dal canto suo, fa orecchie da mercante. “A Verona – dice – abbiamo perso perché Sboarina ha scelto di non allargare per puro interesse personale”. E anzi, espone le sue ragioni col tono di chi vuole rinfacciarle agli altri: “Quando eravamo noi, il primo partito della coalizione, erano tutti lì a spiegarci che dovevamo essere generosi, coordinare, unire. Ora forse chi si sente avanti nei sondaggi pensa di poter fare tutto da solo, aspettandosi che gli altri si adeguano?”. Ecco allora che lui ha voluto chiudere anzitutto la partita che più gli sta a cuore. O, almeno, c’ha provato. E così, su suggerimento del segretario lumbàrd Fabrizio Cecchetti, uno che i malumori dei suoi soldati deve gestirli da mesi, ha convocato una riunione al Palazzo della regione.

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Una formalità, necessaria però a dare un senso all’annuncio: “Fontana è il candidato naturale, essendo anche il presidente uscente”. Solo che se occorre ribadire l’ovvio, è perché la situazione è più complicata di quanto si vorrebbe. Complicatissima deve essere parsa a un certo punto a Fontana stesso. Il quale infatti, giorni fa, in quel di Luino, sulle sponde del lago Maggiore, ha fermato dei dirigenti del Pd e li ha presi quasi a male parole: “Ah, ora volete candidare la Moratti, eh? Solo per mettermi in difficoltà? Ma fate pure, tanto lo so che lei non vede l’ora”. Lei in realtà ha scommesso proprio, come in una profezia autoavverante, sui timori di Fontana, e sul possibile conseguente rimuginare di Salvini: che infatti, a un certo punto, ha messo in allerta Gian Marco Centinaio. Se l’Attilio ci ripensa, era il mandato, tocca a te. “Di certo nessuno come la Moratti può avere il polso della situazione: se una persona di così alto standing si propone, è perché crede che ci sia margine”, insiste La Russa, col tono del guastafeste. “Di certo la Moratti non è Miccichè, ecco”.

E così il senatore meloniano squaderna l’altro fronte di questa guerriglia intestina. “Per noi non esiste la logica del ricatto per cui se non c’è la riconferma di Musumeci allora sabotiamo Fontana”, ha spiegato la Meloni alle sue truppe. “Ma per noi è sacrosanto – ha proseguito – il rispetto di un principio di lealtà”. Che poi in fondo è la stessa cosa. Perché quello che la Meloni pretende come premessa per avviare i negoziati, e cioè la riconferma unitaria di Musumeci, che pure dovrebbe essere il primo grumo da sciogliere prima di discutere di Lazio e Lombardia, è una richiesta ancora in sospeso, in quella specie di teatro dei Pupi allestito a Palazzo d’Orléans. “Il problema è c’è chi vuole bocciare Musumeci, che è uomo libero, scegliere qualche marionetta facilmente controllabile”, dice La Russa. E ce l’ha con Gianfranco Miccichè, il ras siciliano di FI, che però se la ride. E rilancia: “Musumeci ha chiesto un tavolo nazionale. E io sono d’accordissimo. Ma sapete perché la Meloni indugia, sul punto? Perché a quel tavolo scoprirebbe che non è solo Miccichè, a non volere Musumeci, e che anzi sono in tanti a nascondersi dietro di me”. Di nuovo insinuazioni, di nuovo fantasmi. Alla fine, da Arcore, il vertice unitario s’è incaricato di convocarlo il Cav., e né Salvini né Meloni si sono sottratti. “Prima è meglio è”, hanno risposto in coro. E certo, ci sarà da ridere. 

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