Dopo la figuraccia in Polonia Salvini scopre l'arte del tacere

Salvatore Merlo

È il fatto psicopolitico dell’anno: il dichiaratore pronto uso adesso sta zitto. S'era imposto da anni un regime di comparsate piuttosto rigido. Ora il leader leghista è passato da centodiciassette dichiarazioni (calcolate dal Foglio tra il 24 febbraio e il 10 marzo) a sole quattordici dichiarazioni (dall’11 marzo a oggi)

È il primo vero segnale di de-escalation, come direbbero i nuovi virologi, ovvero i geopolitologi che li hanno sostituiti in tv. Matteo Salvini ha smesso di sparare dichiarazioni dalla mattina alla sera, di bombardare con la sua immagine tutti i canali social e di onda media 24 ore su 24. È un evento straordinario. Degno della massima attenzione. Il dichiaratore pronto uso, il trapezzista provetto, s’è fermato. Sulla guerra di Ucraina, per dire, è passato da centodiciassette dichiarazioni (calcolate dal Foglio tra il 24 febbraio e il 10 marzo) a sole quattordici dichiarazioni (dall’11 marzo a oggi). In mezzo c’è stata la Polonia. La figura di tolla in mondovisione. Il momento fatale, direbbe Zweig. L’evento decisivo. Dopo il quale quelli della Lega devono avergli messo una camicia di forza. Un tappo di stoppa in bocca. Altrimenti non si spiega.

      

D’altra parte, Matteo s’era imposto da anni un regime di comparsate piuttosto rigido per evitare che qualcuno potesse malauguratamente dimenticarsi della sua esistenza: alle 8.00 iniziava a parlare alle trasmissioni del mattino, poi convocava tutti i giornalisti davanti al Senato, subito dopo si concedeva un passaggio su Rete 4, seguito da “direttina” Facebook, mitragliata di agenzie, salottone di Bruno Vespa e infine ultima apparizione notturna su Instagram. Casa Salvini: le notti bianche di Matteo. Un format. Un intreccio di vita vissuta in movimento tra soggiorno e tinello, tra un commento all’attualità politica e uno sguardo cupido alla Nutella. E all’alba si ricominciava da capo: Mattino 5, conferenza stampa, Rete 4, diretta Facebook, Vespa o Giordano o Porro, Instagram, Nutella... All’infinito. Volando sulle liane. Come quando s’era convinto d’essere il king maker del presidente della Repubblica, e allora lanciava nomi tipo coriandoli. In tv, sui social, in agenzia. Citofonava a Cassese, a Massolo, a non meglio precisati “professionisti e avvocati”, quindi candidava la Casellati e dopo un’ora buttava in mezzo la Belloni. Ambi, terne, cinquine... tombola! Tutto in diretta. Un reality.    

 

Chiunque altro si sarebbe già fermato allora, dopo il filotto del Quirinale, per consegnarsi all’arte del tacere. Un fondamentale e disatteso precetto politico, già espresso nel Settecento dall’abate Dinouart: “Il silenzio politico è quello di un uomo prudente, che si contiene, che si comporta con circospezione, che non si apre sempre, che non dice tutto ciò che pensa”. Ora tace Salvini, ma non per strategia. Né per calcolo intelligente. È troppo tardi. Dopo la Polonia il silenzio è una necessità. La nemesi di uno che ha straparlato fino a perdere la voce (assieme alla faccia).

Di più su questi argomenti:
  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.