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La cultura e Putin

Non siamo in guerra contro Cajkovskij

Ridurre i simboli a feticci è sbagliato

Maurizio Crippa

Anche dal Washington Post un avvertimento: prima di intraprendere una guerra culturale contro la Russia, è meglio farsi un paio di domande: cosa serve colpire? E che cosa è più utile fare? Forse boicottare la vodka prodotta in Lettonia o cancellare i film di Tarkovskij è la risposta sbagliata

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Non è un obbligo sapere che la vodka Shunning Stolichnaya, che in un video molto rilanciato un signore americano con berretto rovescia a terra, sia in realtà prodotta in Lettonia per conto di un’azienda lussemburghese, e dunque all’economia russa il boicottaggio faccia un baffo. Ma forse qualche italiano sa che uno dei marchi di vodka più diffusi nel mondo è proprietà di Campari. Non si colpiscono  interessi putiniani ma banali feticci di un’idea un po’ casuale della Russia. Siccome non siamo razziatori nazisti di opere d’arte,  quelli combattuti dai Monuments Men di Clooney, è normale che tornino all’Ermitage le opere di sua proprietà attualmente in prestito a musei o esposizioni italiane. Anche se può capitare di leggere stupidaggini come “oggi si nazionalizza anche la bellezza”. Noi mettiamo sanzioni, com’è giusto: non sequestriamo patrimoni d’arte. E bisogna saper distinguere tra gli artisti, le istituzioni da colpire e i simboli che spesso sono forzature. C’è anche chi difendendo “la cultura russa” vuole in realtà difendere Putin; ma ci sono almeno “un paio di domande da farsi prima di scatenare una guerra culturale contro la Russia”, come ha scritto la columnist Alyssa Rosenberg sul Washington Post, cui dobbiamo anche la preziosa info sulla vodka del Lussemburgo.

 

Nel suo articolo, afferma che “quando si tratta di combattere questa guerra culturale, vale la pena distinguere tra un agire tanto per il gusto di agire, e invece la possibilità di dare un contributo reale alla causa della libertà ucraina”. Lo spunto di Rosenberg viene da Cardiff, in Galles, dove la locale Orchestra filarmonica, un ensemble non professionistico, ha deciso di non suonare in un concerto Cajkovskij, per “la sensazione che il programma fosse ‘inappropriato in questo momento’”. Rosenberg sottolinea che l’orchestra “sta facendo esattamente ciò che le istituzioni culturali di tutto il mondo dovrebbero: prendere decisioni difficili sugli eventi globali con sfumature e grazia”. Ma silenziare la musica di un autore russo dell’Ottocento perché alcune sue composizioni si intitolano Marcia slava e Overture 1812 (dunque una celebrazione del patriottismo contro un’invasione) ha poco senso. Non è così, colpendo le opere d’arte o trasformando i loro autori in feticci, che si vincono le guerre. Lavrov ha ammesso che la Russia era “pronta per le sanzioni, ma non si aspettava che avrebbero colpito atleti, intellettuali, attori e giornalisti”. Si sbagliava, è legittimo colpire il soft power del regime. Ma la vodka ridotta a simbolo, o la confusione sugli artisti, è una scivolata da evitare. Di Dostoevskij s’è detto tutto, ma qualche giorno fa in Spagna la Cineteca dell’Andalusia, istituzione pubblica, ha deciso di non proiettare Solaris di Andrej Tarkovskij, senza riflettere che il sommo regista fu costretto dal regime sovietico a scegliere l’esilio. 

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Hanno fatto bene gli artisti russi della Biennale a rinunciare al padiglione Russia, fanno bene altre istituzioni a rinunciare a rapporti formali con Mosca. Cecilie Hollberg, che dirige la Galleria dell’accademia di Firenze, ha rinunciato a esporre alcune opere del Museo Puškin spiegando di aver voluto evitare che “il prestito di opere a un’importante istituzione come l’Accademia venga strumentalizzato politicamente e usato a fini di propaganda”. Ci sono ovviamente le richieste di sostegno da parte ucraina. Un gruppo di registi ucraini ha chiesto l’impegno internazionale per “limitare l’influenza della cultura russa nel mondo”. Anche Daniela Di Sora della casa editrice Voland (“nome che viene da Bulgakov”) ha raccontato a Repubblica di avere ricevuto una richiesta da parte di alcune istituzioni culturali ucraine di boicottare i libri russi. Ma, ha detto, “nel nostro catalogo ci sono autori russi e libri di autori ucraini. La letteratura unisce, crea ponti”.
 

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