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Contro gli equidistanti

Draghi non fa l'autarchico: "Non siamo ancora all'economia di guerra"

Si ragiona su un provvedimento forte per far cadere il Green pass

Carmelo Caruso

A Versailles il premier calma l'allarme, "ma dobbiamo prepararci". Le differenze con Macron e le prossime mosse del governo. L'appuntamento con la nuova Europa è al prossimo Consiglio

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Non si è iscritto a “Forza autarchia”. Ha consigliato di fare razionamento della parola “razionamento”, di non “soggiacere nell’angoscia”, di tenere a bada gli allarmi “grandemente esagerati” sul cibo frazionato e i caloriferi senza fiamme, insomma, “economia da  guerra”. Mario Draghi non ha perso la testa e ha dato un buffetto a chi lo rimproverava di non essersi messo alla testa. A Versailles, dopo il Consiglio informale, diceva che in questo momento non “conta cercare un ruolo ma la pace”. Sono i centralinisti che chiamano Putin e lo fanno sapere. Macron ben quattordici volte! L’Europa non è ancora cambiata. La rivoluzione è riaggiornata al prossimo Consiglio europeo.


In questi casi è doveroso dire “è stato un successo”. Anche il premier, appena concluso il Consiglio informale, in Francia, lo garantiva alla stampa e aggiungeva che “c’è stato uno spirito di solidarietà che non credo di ricordare nei tanti Consigli a cui ho partecipato”. Non si sono prese decisioni, ma almeno si è d’accordo sulle intenzioni. Quattro sono i pilastri dell’Europa dopo l’Europa: diversificazione energetica; sostituzione di fonti fossili con rinnovabili; tetto ai prezzi del gas che determina anche il prezzo dell’energia elettrica; tassazione extraprofitti delle società elettriche che potrebbe generare 200 miliardi di euro. E’ da giorni che gli viene domandato: “Presidente, come pensa di agire?”; “Ha già preparato i nuovi ristori?”; “Ipotizza uno scostamento di bilancio?”.

 

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Il governo non prevede lo scostamento di bilancio e l’economia non è (ancora) “di guerra”. E’ la differenza che passa tra il reale e il probabile, tra certo e quasi. E’ reale la necessità di approvvigionarsi altrove delle materie prime, ha spiegato il premier, come in “Canada, Usa, Argentina”, ma senza agitare l’assalto ai forni del Manzoni e senza pensare che l’Italia può farcela da sola. Draghi lo ha spiegato senza alzare la voce, ma non sottovoce.

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Le sfide che ci attendono (spese militari, energetiche, clausole climatiche) ed era sempre il premier a parlare, impongono una sospensione di quelle regole europee perché i costi non avrebbero spazio in “nessun bilancio nazionale” ed ecco perché “bisogna trovare un compromesso su come generare queste risorse”.

 

Chi scrive di governo conosce ormai queste parole a memoria. Ci sarebbe invece, e tanto, da discutere sul suo approccio internazionale. C’è una politica estera delle telefonate, del “negozio io” e ce n’è poi un’altra, empirica. E’ l’italiana, quella che ha scelto di seguire il governo, la presa d’atto che “a volte è meglio non esserci che esserci se l’obiettivo è dare l’impressione di esserci”. Macron, ad esempio, rivendica le sue conversazioni telefoniche con Putin, con le “prepotenticrazie”. Draghi si è convinto che “Putin non vuole la pace”, “non vuole negoziare” e che le chiamate rischiano perfino di legittimarlo. Macron è in campagna elettorale, Draghi è a capo di un governo d’emergenza e non vuole fare politica. Macron guida un paese che ha l’energia nucleare, Draghi una nazione che festeggia lo sblocco di sei parchi eolici come fosse la battaglia di Vittorio Veneto.

 

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Non era quindi solo il lavoro di un giornale attento, quell’avviso dell’ “operazione marginalità”, quel mettere insieme i pezzi, quei titoli “Draghi snobbato”; “Lo schiaffo dei grandi a Draghi” che si sono moltiplicati dopo la videochiamata a quattro, Biden-Macron-Scholz-Johnson. Era un tentativo (semi)serio di indebolirlo e Draghi ha risposto sorridendo. Gli viene bene. Come con il formidabile “eeeh” del catasto, si chiedeva, e chiedeva, facendo la smorfia: “Eh, è un grosso problema, la mia assenza, lo capisco…”.

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La ragione del mancato invito era semplice: in quel formato internazionale, per una decisione del precedente governo, l’Italia ha c hiesto di non farne parte. Era più interessato all’umore delpaese che è sicuramente stordito dalla guerra, da questo nuovo circolo mediatico autarchico. C’è sempre un buon motivo per spegnere una lampadina ma anche il panico perché “non è che con la guerra stiamo fermi”. E’ come con il Covid. La prossima settimana, in Cdm, si attende il decreto per gestire l’uscita dall’emergenza. In queste ore una parte del governo sta provando a drammatizzare (come se di dramma non ce ne sia abbondanza) per mantenere il Green pass. Un’altra chiede a Draghi di rimuoverlo.

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Draghi è orientato a seguire chi chiede “un’azione forte”. La seconda. Giorgia Meloni se ne è impadronita. Ripete che “il governo dei migliori vuole prorogare il Green pass nel bel mezzo di una crisi internazionale”. Incatastati, autarchici, equidistanti, balneari sovranisti (ieri si sono aggiunti i garantisti anti-Cartabia). Aveva ragione Draghi nel ringraziarla. E’ l’unica opposizione regolare, la sola con il certificato verde.

 

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