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Il racconto

Zingaretti: "Dimissioni irrevocabili, farò politica da governatore come fa Zaia"

E Giuseppe Conte gli telefona: "Nicola, ti capisco, ma sei sicuro?". Tutti lo spingono a un ripensamento, ma lui sembra non cedere: storia finita

Simone Canettieri

Lo sfogo del segretario dal suo bunker in regione: "Mi avrebbero fatto saltare a novembre, me ne vado prima, ma continuerò a stare in campo"

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Tramonto sull’alveare di vetro che domina la Cristoforo Colombo: la sede della regione Lazio. Guardie giurate all’ingresso: “Come? Zingaretti si è dimesso? Da governatore?”. No, da segretario del Pd. “Ah, vabbè”.

 

Davanti al portone c’è la sua Passat grigia (è una berlina, non una station wagon draghiana). Dall’ufficio al secondo piano si affaccia Zingaretti. Maniche di camicia. Saluta con la mano. Due ore prima ha salutato  il Pd con le parole dell’esausto pieno di rabbia: vergogna, stillicidio, poltrone, bersaglio. Il segretario se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato? C’è chi dice di no, ma lui insiste: dimissioni irrevocabili.

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Tutti o quasi lo invocano, tutti o quasi tutti gli chiedono di ripensarci, anche Virginia Raggi dice di “comprenderlo”. Tutti o quasi  lo cercano al Nazareno, dove possiede un ufficio molto minimal, con pochi libri e pochi arredi, le foto delle figlie, segno della precarietà del ruolo, forse. Invece sta qui il segretario “san Sebastiano” (come si autodefinisce), trafitto nell’ultimo mese dalle correnti (Base Riformista), dai silenzi pubblici (Dario Franceschini), dalle donne del partito, dalle giornaliste d’area, da chi gli imputa un tweet per Barbara D’Urso, da Stefano Bonaccini che viene rilanciato da Matteo Salvini, dai sindaci, da Matteo Renzi e dai suoi nostalgici rimasti nel Pd, dal primo che passa e si unisce a questo schiaffo del soldato, anzi del segretario. Una storia un po’ fantozziana e non solo perché proprio da questi uffici della regione Lazio Paolo Villaggio scendeva in ginocchio le scale per essere crocefisso in sala mensa. 

 
“Per me è finita, non sto giocando, non faccio il parafulmine, non vado in assemblea per far contente le correnti”, si sfoga appena il suo post su Facebook deflagra. Lo chiama Giuseppe Conte, motivo di scorno infinito nel Pd, e gli esprime solidarietà, gli chiede se è sicuro del suo gesto. “Sì, sono sicurissimo”. 

  

Per Zingaretti, che spesso e volentieri ha cambiato posizione in corsa, questa volta le dimissioni sono “ir-re-vo-ca-bi-li”. Ma, dice al suo vice in regione Daniele Leodori, “continuerò a fare politica, porterò avanti le mie idee con Piazza Grande, farò politica come la fanno Zaia e Bonaccini, da presidenti di regione, altro che candidato sindaco a Roma”.

 

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Ecco Leodori, uno dei pochissimi a essere stati informati prima dell’annuncio. Sale in macchina: “Nicola era esausto”. Lo sanno bene la sorella Angela e il fratello Luca, il Montalbano nazionale. Che più di una volta, ai pranzi al mare della domenica, gli avranno chiesto: Nico’, ma chi te lo fa fare? Il segretario, che tale non è più, è sicuro che tanto lo avrebbero fatto friggere ancora per qualche mese per farlo saltare a novembre dopo le comunali, addossandogli anche questa colpa, da aggiungere a quella del cambiamento climatico.

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Ma così, riflette, “il Pd sarebbe morto” e dunque si è tolto prima. Oplà. Sorride alla finestra. Nonostante la morsa che adesso lo spinge ad andare in assemblea, fra due settimane, a prendersi gli applausi, resta con noi, Nicola non ci lasciare.

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Invece nei suoi piani è escluso il ritorno, al contrario dell’epitaffio del maestro Franco Califano. Zingaretti, prima di tornare a casa dalla moglie Cristina e dalle figlie Flavia e Agnese, ripercorre la regola del 4 marzo: tre anni fa rivinse le elezioni nel Lazio (nonostante il boom grillino) e il giorno dopo si candidò alla guida del Pd, due anni fa ne divenne il segretario, un anno fa, sempre il 4 marzo, si beccò il Covid. E adesso - chissà se sta cantando Lucio Dalla - ecco un altro 4 marzo. Quello dell’addio. Dice di aver preso un partito al minimo storico, di aver vinto le regionali quando tutti davano in ascesa Salvini, di aver portato, con vari contorcimenti, il Pd al governo, di aver valorizzato una classe dirigente nuova senza chiedere niente in cambio. “Adesso basta”. E spegne la luce del suo ufficio in regione. E anche nel suo Pd.   

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