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Oltre le nomine c'è di più

Guardare negli occhi il reset di Draghi

Il presidente del Consiglio ha ridisegnato la politica mettendo a nudo i limiti dei leader. Il partito di Draghi non c’è. Esiste una scelta dei partiti: considerare la nuova stagione una parentesi da chiudere o un’occasione per diventare grandi

Claudio Cerasa

Occorre creare le condizioni giuste affinché coloro che oggi potrebbero essere tentati da un'esperienza di centro capiscano presto che pensare di far vivere le idee di questo governo in un partito che non c'è rischia solo di essere un modo come un altro per disperdere le proprie energie

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Osservare la composizione del governo Draghi in tutte le sue sfumature è un esercizio utile non solo per capire qualcosa in più sul metodo adottato dal presidente del Consiglio (i ministri si scelgono con il presidente della Repubblica, i sottosegretari si scelgono con i leader di partito) ma anche per capire qualcosa in più su quella che promette di essere una delle partite più interessanti di questa nuova stagione politica. Una partita che, se vogliamo, coincide con un tema cruciale e forse persino appassionante: le conseguenze sulla vita dei partiti del reset imposto dalla nascita del governo Draghi.

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Osservare la composizione del governo Draghi in tutte le sue sfumature è un esercizio utile non solo per capire qualcosa in più sul metodo adottato dal presidente del Consiglio (i ministri si scelgono con il presidente della Repubblica, i sottosegretari si scelgono con i leader di partito) ma anche per capire qualcosa in più su quella che promette di essere una delle partite più interessanti di questa nuova stagione politica. Una partita che, se vogliamo, coincide con un tema cruciale e forse persino appassionante: le conseguenze sulla vita dei partiti del reset imposto dalla nascita del governo Draghi.

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Innanzitutto, nessuno dei partiti che hanno scelto di appoggiare il governo Draghi si trova nelle stesse condizioni in cui si trovava un mese fa. Basta poco per notarlo. Il M5s ha scelto di rinunciare all’agenda Travaglio (ciao Dibba) e ha deciso di appoggiare Draghi (che un sottosegretario del M5s quattro anni fa proponeva di arrestare) anche a costo di perdere un pezzo importante del suo gruppo parlamentare (che sembra uscito da una puntata della “Gabbia” di Paragone). La Lega di Salvini ha scelto di rinunciare all’agenda Salvini (ciao nazionalismo) e ha deciso di appoggiare Draghi (che fino al 2017 veniva definito da Salvini “complice di chi massacrava gli italiani”) anche a costo di vedere premiata una squadra di governo che somiglia più a Giorgetti che a Salvini. Forza Italia ha scelto di spingere sull’anti sovranismo e ha deciso di costruire un patto federativo con la Lega.

 

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Il partito di Renzi, a sua volta, ha scelto di rinunciare al ruolo chiave che avrebbe potuto avere in un TrisConte e ha deciso di sfruttare l’occasione del governo Draghi per provare a diluirsi in qualcosa di più grande (una Margherita 2.0). Lo stesso vale per il Pd che ha scelto di affidarsi alla volontà del presidente della Repubblica (quando c’è una crisi di governo il Pd diventa sempre il partito del capo dello stato) e che ha capito che in una stagione in cui tutto cambia (e in cui cambia soprattutto il suo principale rivale ovvero la Lega) non ci si può permettere di non cambiare qualcosa (e dunque ecco che arriva il congresso).

 

Draghi ha dunque ridisegnato il perimetro della politica (eliminando l’anti europeismo anche dall’opposizione: occhio a FdI) ma ha soprattutto creato le condizioni per mettere di fronte ai capi di partito un altro tema dirompente che riguarda una scommessa che i principali leader non possono certo dire di aver vinto: la capacità di arrivare all’appuntamento con la novità del governo Draghi con una nuova classe dirigente. La Lega si guarda allo specchio-Draghi e vede un partito che in questi anni è stato salvato più da una classe dirigente che esisteva prima di Salvini (gli ex amministratori locali) che da una classe dirigente su cui Salvini ha scommesso (Borgonzoni & co). Il M5s si guarda allo specchio-Draghi e vede un partito che in questi anni è stato salvato da una classe dirigente il cui merito principale (Di Maio, Castelli, Sileri) è quello di aver fatto di tutto per provare ad archiviare le vecchie battaglie del M5s (meno male). Il Pd si guarda allo specchio-Draghi e vede un partito che in questi anni ha fatto crescere una leadership che a parte alcune vecchie volpi (Franceschini, Guerini, Orlando) ha come caratteristica principale quella di essere romana tendenza Lazio (Alessandra Sartore, sottosegretario all’Economia, unico volto nuovo di questo governo per il Pd, viene, come era stato il caso di Gian Paolo Manzella nel governo precedente, dalla regione Lazio, dove Zingaretti è governatore). Ed è un problema, questo, che tutto sommato ha anche un altro partito molto romano come quello guidato da Giorgia Meloni i cui vertici (A.A.A. cercasi disperatamente) hanno un rapporto con il capo persino più stretto di quello coltivato da Zingaretti con gli assessori della regione promossi al governo (il capogruppo di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, è marito della sorella di Giorgia Meloni). 


La sfida nella sfida per i leader dei partiti, protagonisti in un modo o in un altro della stagione di Draghi, non è dunque quella di osservare superficialmente questo governo come se fosse l’embrione di quello che un domani potrebbe essere il partito di Draghi (ma che davero?) ma è al contrario quella di utilizzare l'occasione di questo governo per valorizzare i volti (nuovi?) che più degli altri potranno declinare un giorno l’agenda Draghi, creando le condizioni giuste affinché coloro che oggi potrebbero essere tentati da un'esperienza di centro capiscano presto che pensare di far vivere le idee di questo governo in un partito che non c’è rischia solo di essere un modo come un altro per disperdere le proprie energie. Il reset c’è e mostra una strada per essere all’altezza. Sta ai leader ora scegliere se considerare la nuova stagione una parentesi da chiudere in fretta o un’occasione per diventare grandi. 

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