il doppio gioco del truce

Nomine e chiusure. Così il Salvini di lotta e di governo finisce nella strettoia di Draghi

Borghi&Bagnai sbuffano, e se la prendono con Visco e le mascherine. Picchi mastica amaro: fuori dalla Farnesina e scavalcato da Fontana nella corsa per il dipartimento Esteri. E poi c'è il nodo Molteni

Valerio Valentini

Il premier lo rassicura sulla discontinuità, ma il capo della Lega vuole la testa di Arcuri. "Non mando i miei alla Salute". Giorgetti chiede tempi lunghi al governo, e tifa per il bis di Mattarella. Ma il segretario deve gestire il malumore dei fedelissimi

Al mattino l’incontro con Mario Draghi. A pranzo con la sua Francesca, nel ristorante del fratello Tommaso Verdini,  a due passi da Montecitorio. Nel mezzo, il dubbio sulla postura da tenere, sul respiro da modulare per capire com’è che vuole starci, la Lega, dentro questo nuovo governo. Dipendesse da Giancarlo Giorgetti, la questione sarebbe già risolta. “Per noi Draghi è irreversibile”, scherza il ministro dello Sviluppo, spingendosi a prefigurare, nei conciliaboli più riservati, anche una riconferma di un paio d’anni di Sergio Mattarella al Quirinale, magari fino a fine legislatura, prima dell’apoteosi di “super Mario”. Perché in fondo Giorgetti è questo, che spera: che  non sia per nulla breve, così che possa essere davvero efficace, questo periodo di riabilitazione del Carroccio all’ombra del premier. Serve a completare la traversata verso il Ppe.

 

Solo che Salvini ci sta da una settimana, in questo nuovo assetto, e già scalpita. “Matteo dice a ragione che la convergenza di tutti è giustificata solo dalla crisi  del paese”, spiega Gianni Tonelli, ex leader del sindacato dei poliziotti, espressione della falange trucista del partito, nel cortile di Montecitorio. “Se siamo tutti sotto un tetto che sta crollando, non è che possiamo discutere del colore della tappezzeria: dobbiamo preoccuparci a puntellare i pilastri. E per questo Draghi deve occuparsi delle poche cose davvero necessarie a fronteggiare l’emergenza, in un tempo limitato”. Segnali d’insofferenza, forse. Gli stessi che dimostra Salvini vestendo contemporaneamente i panni del compassato draghiano e quello del barricadero.

 

E certo, ci sta che abbiano a che fare col solito gioco delle parti i mugugni a mezza bocca di Giorgetti quando fa sapere ai suoi parlamentari più fidati che no, la piazzata del segretario al fianco dei ristoratori con la felpa “Io Apro” allestita poche ore dopo che i tre ministri della Lega aveva votato la proroga delle restrizioni fino a fine marzo, non è stata una grande idea. Ma il punto è che le contraddizioni dell’ambiguità emergono davvero. E così succede che, mentre Salvini chieda la riapertura dei locali la sera, i dirigenti della Lega a Brescia, dove la terza ondata è arrivata sul serio anche per bocca di Guido Bertolaso, se la prendano col sindaco Del Bono per non aver chiuso abbastanza. “Non è una questione politica”, prova allora a spiegare la bresciana Simona Bordonali. “E infatti a Bergamo uno come Gori, che è pure lui del Pd, ha introdotto misure restrittive che hanno funzionato, pur senza arrivare alla serrata dei locali o al lockdown”. Ma che insomma la via del doppio registro, per il Carroccio sia un sentiero assai stretto, lo si capirà oggi, quando i leghisti saranno costretti a votare a favore delle comunicazioni che Roberto Speranza terrà in Parlamento, senza nulla concedere alla retorica aperturista.

 

Ed è alla luce di questa frenesia che si spiega anche il nervosismo dimostrato da Salvini nell’invocare un cambiamento che comunque avverrà, quello cioè alla guida della struttura commissariale per la campagna vaccinale. “La riconferma di Arcuri è indegna”, sbotta infatti Alessandro Morelli, altro fedelissimo del segretario. “La sua gestione è stata oggettivamente disastrosa. E se non fosse per i suoi poteri straordinari sarebbe già stato crocifisso in sala mensa dalla Corte dei conti”. E certo sarà pur vero, come Draghi ha lasciato intendere allo stesso Salvini nell’incontro di ieri, che la discontinuità richiesta si manifesterà coi fatti, ma a tempo debito. Ma è indubbio che la permanenza di Arcuri qualche problema al capo della Lega lo ponga, se Salvini ha detto chiaro e tondo ai suoi che lui non manderà nessun leghista in quel dicastero: “Sarebbe inutile, forse anche dannoso”.

 

E così si arriva all’altro corno del problema. Quello delle nomine. O, per meglio dire, delle mancate nomine dei molti che composero la banda del Papeete e che molto smaniarono per quella prossimità al capo che ora gli viene rinfacciata  come una colpa. E pazienza se Borghi&Bagnai sbuffano sui social, l’uno attaccando Ignazio Visco e l’altro alimentando dubbi sull’efficacia delle mascherine anti Covid. E pazienza se Guglielmo Picchi, un tempo regista della diplomazia del Carroccio, si vedrà non solo estromesso dalla Farnesina, ma pure  scavalcato nella corsa interna alla guida del dipartimento Esteri del partito lasciata sguarnita da Giorgetti e destinata a Lorenzo Fontana. Il problema è che se addirittura un colonnello come Nicola Molteni, uno che per un anno ha fatto il lavoro sporco al Viminale, rischia di finire fuori dai giochi del sottogoverno a causa della sua eccessiva compromissione con la stagione del trucismo all’Interno, allora un problema, nel partito che i problemi interni non li concepisce neppure, esiste sul serio. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.