la danza dei partiti

Perché tutti (o quasi) provano a essere il partito di Draghi. E perché nessuno (per ora) può esserlo davvero

Giorgetti dice che "per noi Draghi è irreversibile", ma Salvini scalpita (e perde qualche pezzo). Nel Pd si spera ancora in Ursula, ma si litiga sulla legge elettorale (e interviene anche Guerini). Al centro si spera nell'asse tra Gianni Letta e il Quirinale. Ma FI è in subbuglio. Il blitz fallito per eleggere il capogruppo alla Camera e i mugugni di Tajani: "Vogliono portarci dall'altra parte"

Valerio Valentini

Ci crede il Pd, ci punta Giorgetti, ci spera Renzi. Ognuno è convinto di poter conquistare la centralità politica interpetando al meglio l'agenda del premier. Ma la partita dipende da due incognite, tra loro connesse: la legge elettorale e le scelte di Forza Italia

La cosa più facile sarebbe che qualcuno togliesse il disturbo. E così Alessandro Alfieri, colonnello gueriniano, nell’ultima direzione del Pd ha provato a indicarla la soluzione: “Dovremo spingere il più possibile sull’acceleratore dell’europeismo, che poi è quello che ci metterebbe in scia di Mario Draghi, e a quel punto la Lega entrerebbe in difficoltà”. Solo che dall’altro lato della barricata, Giancarlo Giorgetti si dimostra irremovibile, e parafrasando il premier dice che “per la Lega Super Mario è irreversibile”. Per cui no, “non sarà un’avventura”. E anzi, dal canto suo, anche Matteo Salvini rimugina su come riuscire a ridurre il perimetro della maggioranza. “Il M5s in questo governo ci sta dentro con un piede solo”, ha detto ai suoi fedelissimi il segretario della Lega. “Per questo noi dobbiamo menare forte sui temi dello sviluppo e della crescita, rendendo chiaro le ragioni della nostra sintonia con Draghi, e mandano i grillini in tilt”. E allora ecco i riferimenti alla Tav e al ponte sullo Stretto, ecco le richieste sulla prescrizione (la cui riforma venne approvata proprio coi voti dei leghisti, al tempo del governo gialloverde). Il senso dell’operazione la spiegava ieri, in un corridoio laterale di Montecitorio, l’ex viceministro dello Sviluppo del Carroccio, Dario Galli. “Se il M5s si irrigidisce, il Pd dovrà andargli dietro per non mandare per aria questa loro alleanza. E a quel punto, il riferimento per Draghi diventiamo noi”.

 

Insomma tutti provano ad esserlo, ora, il partito di Draghi. Anche Matteo Renzi, quando dice ai suoi che “ora è il momento di federare il centro, di declinare in chiave italiana il progetto di Macron”, lo fa perché è convinto che “l’agenda di Draghi è la stessa nostra: liberale, riformista, europeista”. E per una volta pare mettere tutti d’accordo, in quello spazio affollato e litigioso che è il centro italiano, se è vero che perfino Emma Bonino, una che col senatore di Scandicci non è mai andata granché d’accordo, uscendo dall’Aula di Palazzo Madama mercoledì usava forse per la prima volta parole di bontà. “Il centro ora deve crescere, proprio sotto l’ombrello di Draghi. Ma basta coi personalismi e le piccinerie”. Riuscirà Renzi a non farsi insultare da Carlo Calenda, e Calenda a non bisticciare con Mara Carfagna? “Nelson Mandela – replicava la Bonino – diceva l’impresa più difficile non è cambiare il mondo, ma cambiare se stessi. Se ci riescono, tutti questi leader, colgono una grande occasione”.

 

E se per Renzi il problema sta nella sua indole più incline al travolgere che non al costruire, va detto che anche gli altri partiti che si candidano al ruolo di pretoriani di Draghi hanno le loro difficoltà da affrontare, per poter interpretare fino in fondo questa parte in commedia. Salvini il problema ce l’ha in casa. Perché la svolta è riuscita, ma ora bisognerà dargli gambe e respiro. Nel giorno del giuramento alla Camera per il nuovo governo, ha perduto un europarlamentare (Vincenzo Sofo), un deputato (Gianluca Vinci, già in rotta di collisione con Via Bellerio da quando – un anno fa – la sua segreteria emiliana era stata commissariata) e un capogruppo nel consiglio regionale lucano (Tommaso Coviello): tutti passati armi e bagagli con Fratelli d’Italia. Forse temeva peggio, Salvini, in verità. Fosse tutta qui, l’emorragia interna, sarebbe poca cosa. Ma i mesi prossimi, e il progressivo appiattimento sull’agenda europeista, potrebbero complicare le cose. Anche perché negli organigrammi interni, i salviniani di stretta osservanza si sentono già messi nell’ombra dei fedelissimi di Giorgetti. E non è un caso che Alessandro Morelli venga descritto come nervossissimo, nella guerra di posizionamenti che prelude alla definizione degli incarichi di sottogoverno. E lo stesso Stefano Candiani, desideroso di tornare al Viminale, è arrivato a criticare coi suoi confidenti anche le scelte prese da Guido Bertolaso in regione Lombardia, proprio nei giorni in cui invece Salvini prova a imporre l’ex capo della Protezione civile come modello virtuoso con cui rimpiazzare il commissario Domenico Arcuri.

 

Poi c’è il Pd. Che lo spazio al centro vorrebbe provare ad occuparlo. Anche perché i contatti tra Giorgetti e Maria Elena Boschi, tra Renzi e Salvini, sono ormai risaputi anche dalle parti del Nazareno. E il rischio percepito dall’ala riformista del partito è proprio quella di restare intrappolati in un’alleanza col M5s sempre più sgangherato. E’ per questo che, quando è venuta fuori la notizia dell’intergruppo al Senato, Luca Lotti ha arricciato il naso. “La coperta è corta”, s’è limitato a sbuffare. Come a dire che se ci si acquatta nel recinto del demogrillismo, difficilmente si potrà guardare anche ai moderati di Forza Italia.

 

E qui sta appunto la prima delle due incognite da sciogliere, per potere decidere chi e come saprà insediarsi meglio nel solco di Draghi. Perché il partito del Cav., considerato a lungo marginale e irrilevante nel corso della legislatura, è ora la linea di faglia della politica italiana. “Questo governo è nato con l’idea di staccare FI dall’alveo del centrodestra”, mugugnava Antonio Tajani coi suoi deputati più fedeli, ieri pomeriggio, nel cortile di Montecitorio. E il riferimento era, anche, all’assetto dell’esecutivo. Dove, su tre posti a disposizione dei berlusconiani, Draghi e Sergio Mattarella hanno scelto tre esponenti dell’ala più centrista, quella più ostile al giogo sovranista. Un segnale dell’influenza di Gianni Letta, che col Colle ha un filo diretto e che ora ai suoi confidenti dice ogni bene di Mara Carfagna (“E’ cresciuta tantissimo, è davvero brava”), e a sentir parlare della morte politica di Renzi suggerisce cautela, “perché Matteo resta un cavallo di razza”. E insomma all’idea della riconciliazione al centro ci crede eccome. Prima, però, Forza Italia deve pensare alla riconciliazione al proprio interno. Perché la strambata moderata, con l’imposizione di Brunetta, Gelmini e Carfagna al governo, è stata così netta da provocare un certo disorientamento. Il Cav. ha tentato di rimediare assegnando qua e là cariche ai capi dell’altra corrente, quella più vicina a Salvini e guidata da Tajani, Bernini e Ronzulli. Ma non è certo bastato a rasserenare il clima nel partito. E infatti quando mercoledì la Gelmini, neo ministra, ha riunito l’assemblea dei deputati tentando, col sostegno di Brunetta, di eleggere il suo successore a capogruppo, invocando l’acclamazione per Roberto Occhiuto, altro esponente dell’ala moderata del partito, l’applauso richiesto per due volte è stato due volte negato. Se ne riparlerà la prossima settimana, quando si ragionerà di nuovo sugli equilibri interni anche alla luce della spartizione dei posti di sottogoverno.

 

Ma in fondo tutto ruota intorno a un’altra incognita, che la precedente include e sottintende. “Perché è sulla legge elettorale, in fondo, che Forza Italia farà il suo congresso per decidere cosa fare da grande”, dice Federico Fornaro, capogruppo di Leu e gran conoscitore della palude di Montecitorio. Il proporzionale sembrava infatti l’approdo scontato di una maggioranza “Ursula” sotto la benedizione di Draghi e Mattarella. Ma la scelta della Lega di entrare maggioranza è servita anche a scompaginare il progetto. “Perché col Carroccio dentro, sarà impossibile portare FI a condividere con noi il proporzionale”, dice Andrea Romano. “Solo che se noi rinunciamo a prescindere al proporzionale, ci precludiamo la possibilità di un’intesa con l’ala moderata di FI, che ci renderebbe, quella sì, in grado di presentarci come il partito di Draghi”, gli risponde a distanza Enrico Borghi. Pure lui dem, e pure lui esponente della corrente di Base riformista. E non è un caso che, per dirimere la questione, ieri sia intervenuto lo stesso Lorenzo Guerini, ministro della difesa e capo corrente, per dire che no, escludere a priori l’ipotesi del proporzionale non è affatto saggio, al momento. Perché è proprio da lì che passa la possibilità di disarticolare il centrodestra.

 

E infatti Gaetano Quagliariello, senatore di Cambiamo, mercoledì, passeggiando nel Salone Garibaldi di Palazzo Madama diceva proprio questo: “L’ho detto anche a Giovanni Toti che noi dovremmo chiedere che si proceda sul tavolo delle riforme istituzionali su un percorso separato rispetto a quello delle emergenze sanitaria ed economica. Perché se tutto resta così – proseguiva Quaglieriello – noi non potremmo che restare la parte più vicina al centro di una coalizione di centrodestra. Se invece si varasse un proporzionale con soglia di sbarramento significativa, introducendo anche la sfiducia costruttiva, allora potremmo diventare un petalo di quel centro che andrebbe da Renzi fino alla Carfagna e che poi, a seconda delle dinamiche interne ed esterne, decidere se allearsi col centrosinistra o col centrodestra”.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.