la trattativa

Così Salvini rischia di uscire sconfitto nella sfida per il sottogoverno

I trambusti dentro il M5s e i tentennamenti del Pd coprono i malumori nel Carroccio. I grillini chiedono dodici posti e le deleghe sullo Sport. Al Pd sei sottosegretari: rientra in gioco Amendola, benedetto dal Colle. La trattativa nelle mani di Garofoli. Così Draghi prova a sfrondare i partiti delle loro ali estreme

Valerio Valentini

Il veto di Orlando su Durigon, il disarmo bilaterale sul Viminale (né dem né leghisti al fianco della Lamorgese). I fedelissimi del Capitano speravano nel risarcimento, ma per ora sbuffano. Lo sfogo di Centinaio ("Così non contiamo nulla"), il doppio gioco di Candiani

La fortuna di Matteo Salvini è che c’è chi sta messo peggio di lui. Perché il M5s resta accartocciato sulle sue divisioni interne, e il Pd approfitta delle convulsioni grilline per prendere tempo, e però quel tempo esaspera le tensioni latenti. E poi c’è Matteo Renzi, costretto a dover affidare i due posti che gli sono destinati scegliendo tra i molti dei suoi che scalpitano. E così, in questa trattativa sui sottosegretari che si fa estenuante, nella confusione generale il capo della Lega può nascondere senza troppa difficoltà i malumori che nel suo partito crescono eccome, specie tra i suoi fedelissimi.

 

L’epicentro resta comunque lì, sulla scrivania di quel  Roberto Garofoli che ieri s’è deciso a paventare una soluzione finale: perché se entro mercoledì non si archivia la pratica, Mario Draghi potrebbe decidere a modo suo. E non è tanto e solo per evitare che le baruffe dentro la maggioranza guastino il lavoro ancor prima che cominci davvero. Il punto è che la nomina dei sottosegretari, e il conseguente decreto di riordino dei ministeri, resta propedeutico per avviare la macchina dell’esecutivo. E così, quando nel Cdm di ieri mattina il grillino Stefano Patuanelli ha domandato come mai del dl Ristori e dei 32 miliardi di scostamento connessi si siano perse le tracce, il premier ha risposto che il dossier è nelle mani dei tecnici del Mef, ma facendo buon viso a cattivo gioco.

 

Perché grossa parte dei problemi che ingarbugliano la matassa sta proprio dentro il M5s. Che esigeva - nonostante le insubordinazioni dei ribelli alla Camera e al Senato - dodici posti. Uno in più di quelli che gli spetterebbero nello schema messo a punto da Garofoli. E, tra le altre, il M5s rivendica anche l’ambita delega allo Sport, da assegnare a  Fabiana Dadone. E così, potendo contare sullo stallo grillino, anche il Pd s’interroga e si contorce sulla sua squadra. Tra i sei che spettano al Nazareno,  uno pare già prenotato. Perché dal Colle hanno fatto capire che gradirebbero la riconferma di Enzo Amendola, per non interrompere la buona diplomazia che l’ex ministro aveva saputo instaurare con Bruxelles. Quanto a Renzi, lui di fronte alle molte autocandidature dei suoi, ha messo le mani avanti. “Se guardiamo ai numeri parlamentari - ha spiegato a deputati e senatori di Iv -  a noi toccherà un viceministro e un sottosegretario. In ogni caso il metodo di lavoro che Chigi vuole utilizzare è al momento sconosciuto a tutte le forze politiche”.

 

E figurarsi allora quel che accade dentro la Lega. Che di candidature ne ha depositate dieci, nella speranza di vedersene assegnare otto. Ma più che il computo totale, è la ripartizione interna ad inquietare i colonnelli del Carroccio. Perché con loro Salvini era stato categorico: di fronte alla promozione dell’ala moderata del partito nell’esecutivo, aveva promesso il riscatto nell’abbuffata di sottogoverno. “Ma io, che sono responsabile del Turismo nel partito, non ci sto a vedermi messo nell’angolo”, è sbottato invece Gian Marco Centinaio, a cui la promozione di Massimo Garavaglia non è andata giù. E così ora sdegna qualsiasi compensazione, e anzi coi suoi colleghi senatori si lascia andare a vaticini foschi: “Se non contiamo nulla, alla fine anche Matteo si stancherà”. Già s’è stancato, a quanto pare, Stefano Candiani: che sentendosi marginalizzato parla già coi toni del mezzo dissidente (arrivando a contestare coi suoi lumbàrd perfino le scelte di Guido Bertolaso in regione), e poi però fa arrivare al ministro Luciana Lamorgese messaggi in bottiglia per accreditarsi come esponente del leghismo dal volto umano, sperando così di vedersi riassegnare un posto al Viminale. Dove però, non senza il dispiacere del Quirinale, l’intesa  potrebbe portare a un disarmo bilaterale, senza  presenze né della Lega né del Pd, e con le  deleghe sull’Immigrazione che resterebbero  nelle mani della Lamorgese.

 

Perché in questa partita anche i voleri dei ministri contano: è con loro che il premier, a norma di legge, deve concertarsi per trovare i nomi da proporre al capo dello stato. Ed è per questo che un altro salviniano di razza come Claudio Durigon potrebbe dover lasciare spazio a una seconda linea come Andrea Giaccone, nel ministero del Lavoro retto da Andrea Orlando. Quanto alla vicepresidenza della Camera lasciata vacante da Mara Carfagna, il candidato leghista più accreditato è quel Raffaele Volpi che dovrà lasciare la presidenza del Copasir. E a quel punto, a vedere la foto della squadra di governo del Carroccio, il salvinismo potrebbe apparire davvero minoritario. E il tutto senza che Salvini possa aver nulla da ridire.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.