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il secondo giro di consultazioni

Così Draghi dovrà gestire i sogni da ministri di Zingaretti e Salvini

I contatti tra il Nazareno e il Carroccio: "Ma Matteo fa sul serio?". Giorgetti se la ride: "I dem hanno già preso Draghi nel loro Pantheon". Renzi si sfila: "Io non entro": Ma il premier per ora fa il vago sui ministeri: "Voglio gente competente, poco importa se tecnici o politici"

Valerio Valentini

Promette tutto a tutti, ma sull'assetto di governo il premier incaricato non si sbilancia e si confronta solo col Colle. Il capo della Lega scalpita, il segretario del Pd potrebbe essere spinto dalle baruffe interne. Ma dare un ministero ai leader per Mr Bce può diventare un guaio. E lui non cerca guai

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Mario Draghi così è, se vi pare. O forse no. Uscito dall’incontro col premier incaricato, Andrea Orlando mostra un piglio battagliero: “Visto? Ci ha parlato di una cessione di sovranità all’Europa. Sono curioso di sapere cosa ne dirà Salvini”. Solo che  Salvini esce e festeggia: “Il professor Draghi ci ha parlato di Europa, e di come difendere l’interesse italiano in sede europea”. E del resto la delegazione di Leu, al mattino, aveva apprezzato quel riferimento di Draghi “a un’economia sociale di mercato”, e pure  il renziano Davide Faraone poteva rivendicare la sua vittoria: “Ha dato priorità alla vaccinazione degli insegnanti, come Iv aveva chiesto”. Ai Cinque stelle, manco a parlarne: chiusura sul Mes, difesa del reddito di cittadinanza, benedizione del superministero della Transizione energetica chiesto da Beppe Grillo.

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Mario Draghi così è, se vi pare. O forse no. Uscito dall’incontro col premier incaricato, Andrea Orlando mostra un piglio battagliero: “Visto? Ci ha parlato di una cessione di sovranità all’Europa. Sono curioso di sapere cosa ne dirà Salvini”. Solo che  Salvini esce e festeggia: “Il professor Draghi ci ha parlato di Europa, e di come difendere l’interesse italiano in sede europea”. E del resto la delegazione di Leu, al mattino, aveva apprezzato quel riferimento di Draghi “a un’economia sociale di mercato”, e pure  il renziano Davide Faraone poteva rivendicare la sua vittoria: “Ha dato priorità alla vaccinazione degli insegnanti, come Iv aveva chiesto”. Ai Cinque stelle, manco a parlarne: chiusura sul Mes, difesa del reddito di cittadinanza, benedizione del superministero della Transizione energetica chiesto da Beppe Grillo.

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Io sono insomma colei che mi si crede, si legge in controluce tra le carte che Draghi riempie di appunti mentre le delegazioni dei vari partiti si avvicendano nella Sala della lupa per il secondo giro di consultazioni. E lui per tutti ha un sorriso: “Se badiamo alla sostanza - ripete - si andrà d’accordo”. E se per farlo sedimentare, questo accordo, ci vuole tempo, ecco che il premier incaricato rimanda la sua salita al Quirinale a venerdì, a quanto pare, ma solo per riferire formalmente a Sergio Mattarella sull’esito delle consultazioni, dopo che il responso di Rousseau - così va il mondo, nel secolo ventunesimo - sarà messo agli atti, per poi rimandare all’indomani il giuramento del nuovo governo.

 

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Ed è qui che forse le prime grane arriveranno, per Draghi. E sempre per una sorta di eccesso d’entusiasmo nei suoi confronti. Matteo Salvini vuole entrarci, al governo. Lo ha lasciato capire in tutti i modi, anche agli ambasciatori del Pd che ancora ieri sondavano gli umori del fu Truce, restandone fulminati (“Questo fa sul serio davvero”). La giustificazione starebbe nella rivendicazione della pari dignità: “Noi in questo esecutivo ci entriamo con lo stesso diritto del Pd, che ovviamente già ha inserito Draghi nella lunga lista dei suoi padri nobili”, ripete Giancarlo Giorgetti, pure lui in predicato di entrare nel governo, con l’aria di chi sa di avere col premier incaricato una consuetudine di certo non inferiore a quella di tanti dirigenti dem (“Noi che l’ipotesi Draghi c’era davvero lo sapevamo da dicembre, loro l’hanno scoperto quando lo ha convocato Mattarella”). E allora s’è convinto anche Salvini: “Se entrano gli altri leader, entro anch’io”.

 

Certo, i grillini sbuffano. Ma sarebbe arduo sostenere che Luigi Di Maio, entrando al governo (come lui è certo che sarà, in una terna che vede anche Stefano Patuanelli e Riccardo Fraccaro, o  Alfonso Bonafede), non ci entrerebbe in qualità di leader del M5s. E forse sa, Salvini, che anche Nicola Zingaretti è tentato non poco, dal grande passo. Lo pensa anche Matteo Renzi, del resto, che coi suoi ragiona così: “Zinga vuole entrare, ma a quel punto dovrà farlo anche Salvini. E sai che cinema”, dice, come profetizzando un gioco al massacro da cui ci tiene a sfilarsi: “Io? No, io non entro”, garantisce, lasciando intendere che nel posto di Iv al governo dovrebbe tornare Teresa Bellanova. Quanto a Zingaretti, invece, la sua voglia di governo il segretario pare confermarla  quando, interrogato su una sua eventuale disponibilità a fare il ministro, non nega né conferma, ma galleggia sui “vedremo”, sui “non ne abbiamo ancora parlato”. Et pour cause.  Sia perché la baruffa che s’è aperta dentro al Pd per accaparrarsi i due posti che spettano ai dem (con Franceschini candidato naturale, la corrente riformista che  esige una riconferma di Guerini, con Gualtieri che si considera inamovibile dal Mef, Orlando che scalpita e la rogna poi di dover eventualmente promuovere pure la parità di genere - presto, una donna ministrabile!), Zinga rischierebbe di apparire isolato, all’ombra del Nazareno dove peraltro già tira aria di congresso.

 

E però è proprio qui che l’affabile, accomodante Draghi, potrebbe svestire la sua maschera. Perché lui, al momento, l’unico tema che ha sempre scansato è proprio quello dell’assetto di governo, finendo quasi con l’insospettire i capi dei partiti. Che hanno provato eccome a sondarlo. E lui al massimo s’è lasciato scappare una mezza frase, pure quella  sibillina: “A me  interessa che nei posti chiave, quelli che dovranno gestire le emergenze economica, sanitaria, educativa e sociale, ci siano persone altamente competenti e in grado di comunicare bene. Che siano tecnici o politici è secondario”. Fine del discorso. Come a lasciare intendere, cioè, che la scelta finale lui prenderà nel rispetto letterale della Costituzione, quasi in una sorta di ritorno allo statuto, che di fatto conferisce al premier e al capo dello stato, e basta, il potere reale di nomina. E a quel punto, proprio le ostilità reciproche, i veti incrociati, potrebbero spingerlo a evitare di prendere a bordo i leader di partito. Che sia chiaro, insomma, chi indica la rotta. 

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