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Un paese irriformabile

Michele Salvati

Istituzioni, progetti, Europa. Non basta una crisi per salvare l’Italia. Sfogo di un riformista non ottimista 

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Qualche amico mi chiede perché abbia smesso di scrivere sulla situazione economico-politica italiana. Una risposta, vera, è che sto ragionando e scrivendo su altri argomenti. Ma una risposta ancor più vera è che non vedo una via d’uscita dalla situazione infelice in cui l’Italia si trova, una via d’uscita che sia, insieme, realistica e auspicabile. E non mi sento motivato a scrivere se la conclusione è: lasciate ogni speranza o voi che entrate. Detto senza riferimenti al Poeta: lasciate ogni speranza voi che vivete in questo disgraziato paese. E’ vero che il futuro può presentare sorprese e stelloni italici, ma una via d’uscita che sia insieme auspicabile e realisticamente percorribile sarebbe proprio una grossa sorpresa: visti con le conoscenze di oggi e valutati con i valori che condividiamo, auspicabilità e realismo sono entrati in un conflitto insanabile, anche se, sia per l’una che per l’altro si propongono obiettivi modesti, un piccolo miglioramento dell’attuale situazione e una piccola probabilità che si realizzi. 

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Qualche amico mi chiede perché abbia smesso di scrivere sulla situazione economico-politica italiana. Una risposta, vera, è che sto ragionando e scrivendo su altri argomenti. Ma una risposta ancor più vera è che non vedo una via d’uscita dalla situazione infelice in cui l’Italia si trova, una via d’uscita che sia, insieme, realistica e auspicabile. E non mi sento motivato a scrivere se la conclusione è: lasciate ogni speranza o voi che entrate. Detto senza riferimenti al Poeta: lasciate ogni speranza voi che vivete in questo disgraziato paese. E’ vero che il futuro può presentare sorprese e stelloni italici, ma una via d’uscita che sia insieme auspicabile e realisticamente percorribile sarebbe proprio una grossa sorpresa: visti con le conoscenze di oggi e valutati con i valori che condividiamo, auspicabilità e realismo sono entrati in un conflitto insanabile, anche se, sia per l’una che per l’altro si propongono obiettivi modesti, un piccolo miglioramento dell’attuale situazione e una piccola probabilità che si realizzi. 

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La via d’uscita auspicabile è ben nota: consiste nell’affrontare e cercare di risolvere – con determinazione, pazienza e continuità – i problemi che stanno alla radice del declino del nostro paese, della sua incapacità di crescere a ritmi simili a quelli a cui crescono le principali economie avanzate con le quali ci confrontiamo: la crescita è stata nulla negli ultimi vent’anni, ma le cause di questo primato negativo già si vedevano quando ancora la crescita era simile a quella dei paesi con i quali un confronto ha senso. Altrettanto noti, nei loro tratti più generali, sono i problemi da affrontare: una struttura economica inadeguata a sostenere una crescita del reddito sufficiente; un forte disordine istituzionale dello stato, di cui il conflitto stato-regioni è solo l’aspetto più evidente; una grave inefficienza delle strutture amministrative pubbliche; un ordinamento giudiziario ingiusto, male organizzato e che intralcia l’esecutivo; un sistema di istruzione pubblica incapace di assolvere le sue funzioni; un dualismo territoriale che non fa che accentuarsi.

   

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È su questa situazione, già profondamente deteriorata, che si è abbattuto il Covid. Come mai, assai prima della pandemia, quando i problemi cui ho fatto cenno erano già del tutto evidenti, i governi che si sono succeduti (quale più, quale meno, naturalmente: non bisogna fare di tutt’erba un fascio) hanno fatto così poco per affrontarli? 

 

È dalla risposta a questa domanda che nasce il pessimismo: i governi, e il sistema politico che li esprime nella nostra democrazia, non sono in grado di affrontarli. Non lo sono stati a partire dalla seconda parte della Prima Repubblica (da lì nasce il nostro debito pubblico), non lo sono stati per tutta la Seconda e tanto meno lo sono ora quando ci stiamo avviando verso la Terza. Insomma, il sistema politico italiano si è trasformato nel principale ostacolo allo sviluppo del paese. E forse è utile un breve richiamo a eventi ben noti.

  

L’insoddisfazione degli elettori per i governi a trazione Dc-Psi della seconda parte della Prima Repubblica – a cui segue Mani pulite – porta al governo la coalizione “genialmente” creata da Berlusconi, poi assai rapido nell’abbandonare gli onesti e ragionevoli consiglieri liberali di cui si era avvalso nella sua costruzione: dopo i governi dell’Ulivo della XIII legislatura, si riappacifica con la Lega e vince trionfalmente le elezioni del 2001 agitando lo spettro del comunismo. Il paese rapidamente si incarta – è pur sempre paese di Guelfi e Ghibellini – in un’impropria ed estremistica contrapposizione Destra/Sinistra che elettoralmente fa assai comodo a entrambi gli schieramenti: essa aiuta a nascondere la mancanza (o il conflitto) di idee e di prospettive concrete su come riformare il paese. 

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I problemi che questo deve affrontare – li abbiamo appena evocati – hanno sicuramente declinazioni di destra e sinistra, ma sono sostanzialmente problemi di efficienza e di modernizzazione incompleta e distorta: su di essi occorrerebbe costruire un consenso bipartisan,  un consenso impossibile se lo scontro ideologico è troppo aspro. E quando – avendo come obiettivo prevalente un successo elettorale a breve termine ottenuto con misure costose e mal disegnate – i governi “politici” escono dal perimetro di una gestione economica sostenibile nel contesto internazionale di cui l’Italia è parte, si è provveduto con la risorsa dei poteri a fisarmonica del presidente della Repubblica e con governi “tecnici”, che ovviamente solo tecnici non sono. Si tratta però di esperimenti brevi, cui non è lasciato il tempo di incidere in profondità sui guasti del sistema, perché i “politici” intendono riacquistare al più presto il potere che momentaneamente sono stati costretti a delegare.

 

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La storia delle ultime due elezioni politiche (2013 e 2018) non fa che ripetere, e peggiorare ulteriormente, questo orientamento di governance. Questa volta non c’è stato il trauma di Mani pulite, ma l’insoddisfazione degli elettori che non vedevano miglioramenti apprezzabili nella situazione del paese si scatenò (e fu efficacemente convogliata) contro il Partito democratico e Forza Italia, i partiti che si erano alternati al governo durante la Seconda Repubblica ed avevano appoggiato il governo “tecnico” di Mario Monti. La Lega si era sfilata in tempo e affrontò le elezioni del 2018 con slogan antieuropei e sovranisti, ottenendo un successo destinato ad aumentare nei sondaggi successivi a seguito della capacità del suo leader di intercettare e amplificare l’ostilità contro gli immigrati latente in larghi segmenti dell’elettorato. Il vero vincitore delle ultime elezioni fu un movimento populista che si era già affermato nelle precedenti, il Movimento 5 Stelle, e arrivò a conquistare quasi un terzo dei voti. Il tentativo di Matteo Renzi di coniugare slogan e concessioni populistiche nel periodo breve con un progetto costituzionale orientato al lungo, venne sconfitto nel referendum, come era già accaduto per un simile progetto presentato dal governo Berlusconi nel 2006. La batosta elettorale del Partito democratico nel 2018 (e ancora più forte per Forza Italia)  fu la conseguenza inevitabile di questo fallimento.

  
Il resto della storia è cronaca politica di questi ultimi due anni, una cronaca dominata dalla crisi di governo dell’estate 2019 –il passaggio dal Conte 1 al Conte 2 – e soprattutto dal Covid, che ha messo a nudo tutti i guasti che l’incapacità di affrontare i veri problemi del paese hanno prodotto e la radicale inadeguatezza del nostro modello di governance, della “democrazia all’italiana”, che di questa incapacità è la causa ultima. 

  
Mi si dirà: in tutti i paesi di democrazia liberale l’arte del governo (e dei partiti che lo compongono) è quella di tenere insieme consenso elettorale e misure volte ad attrezzare il paese mediante riforme che lo preparino al futuro, riforme spesso politicamente costose perché gran parte dei cittadini non ne capisce la necessità, non ne tollera i tempi lunghi e ne vede solo i costi immediati. E’ vero, ed è vero che in tutti i paesi il gioco dell’opposizione, libera da impegni di governo, è quello di screditare le riforme proposte, accusandole di essere inutili o controproducenti o di essere, a seconda degli elettorati cui si rivolge, di Destra o di Sinistra, quando queste categorie mantengono ancora qualche presa sugli elettori. Ma il messaggio che è passato in Italia è che di riforme che affrontino i veri problemi del paese non c’è bisogno: le riforme da fare sono altre, o fantasiose come quelle proposte dai Cinque stelle (reddito di cittadinanza e… navigatori) o dannose per gli equilibri finanziari, com’è la quota 100 della Lega. In altri paesi, più fortunati e meglio gestiti, questo conflitto è meno pronunciato, vuoi perché il governo dispone di istituzioni più solide e burocrazie più efficaci, vuoi perché è riuscito in passato a fare accettare riforme che ne hanno rafforzato la credibilità e il successo economico, vuoi perché il loro sistema politico non ha subito le scosse del nostro, da Mani pulite in poi. Scosse che, quando non li hanno distrutti, hanno minato la credibilità dei partiti tradizionali. E’ per questi motivi che l’Italia è il paese che è cresciuto meno negli ultimi vent’anni, se confrontato con paesi analoghi, e quello in cui, secondo tutte le previsioni, la pandemia avrà gli effetti più negativi sulla crescita futura.

   

C’è qualche appiglio su cui  appoggiare una speranza realistica che le cose cambino nettamente in un futuro prevedibile e che un Conte 3 o un Fico o anche un governo “tecnico” o “istituzionale”  possa raddrizzare la situazione?  Con i più sinceri auguri che il governo che uscirà dalle consultazioni in corso sia nettamente migliore dei due che l’hanno preceduto in questa legislatura, un radicale mutamento di indirizzo è fuori dalla portata delle forze politiche che lo sostengono. A differenza dei tanti che l’hanno criticato, il progetto Colao elaborato nell’estate scorsa aveva suscitato in me qualche tenue speranza, nell’illusione che qualcuna delle sue raccomandazioni venisse completata e meglio precisata nel Piano nazionale che avremmo dovuto presentare all’Unione europea. Ma il rigetto e il declassamento del progetto a mera iniziativa propagandistica è stato unanime tra le forze politiche. Ora è urgente riempire la scatola semi-vuota del Pnrr e non mi risulta ci siano progetti elaborati sui punti cruciali. E questi non sono tanto quelli di promettere investimenti nei settori indicati dall’Europa (su sanità, ambiente, trasporti, digitalizzazione  qualcosa, sulla carta, si può mettere insieme): sono invece progetti concreti sulle condizioni che rendano quegli impegni credibili, nella loro efficacia e nei tempi previsti per la loro attuazione. E qui il tema della inefficienza della Pubblica amministrazione (cui non si rimedia solo con una dotazione massiccia di computer), della confusione istituzionale di competenze tra i vari poteri dello stato, della lentezza della giustizia in tutti i suoi rami e livelli è del tutto assente e non rimediabile in un periodo breve. Per non dire dell’istruzione, che dovrebbe essere il tema centrale di un progetto rivolto alle future generazioni.  

 
Ma ammettiamo per proseguire il discorso che l’attuale Piano nazionale possa essere migliorato e che l’Europa l’accetti. Il piano che l’Europa ci richiede scavalca l’orizzonte di questa legislatura: quali garanzie ci sono che il governo che risulterà vincente nelle prossime elezioni politiche sia più coeso di quelli che l’hanno preceduto e, soprattutto, si senta  impegnato a proseguire secondo le linee del Pnrr indicate dal governo precedente? Questo è un problema che si pone per tutti gli stati cui è destinato il programma poliennale di NgEu: di qui l’importanza che la sua attuazione sia affidata a una struttura bipartisan e proceda su binari il meno possibile dipendenti da quali forze politiche siano effettivamente al governo. Sarà già difficile ottenere questo risultato in paesi dove sugli investimenti da finanziare si riesce a ottenere un accordo bipartisan di massima. E’ semplicemente impossibile nel nostro ed è forse per questo che l’attuale piano si limita a mettere cifre sullo hardware degli investimenti in strutture materiali e sia reticente sul software, sul modello organizzativo, che dovrebbe farli funzionare. Sul software, cioè sui problemi per i quali l’esperienza democratica del nostro paese ha mostrato le più vistose debolezze – sulla giustizia, sulla Pubblica amministrazione, sulla scuola, sulla confusione dei compiti istituzionali – tutto è lasciato ai governi in carica ed è facilmente prevedibile che i disegni organizzativi iniziati da un governo saranno disattesi o rovesciati dal successivo.

 
Un dittatore benevolo non è possibile in democrazia. L’unico sostituto, quando la situazione raggiunge i confini dell’emergenza, è un accordo tra le forze politiche, un governo di unità nazionale. Alcuni mesi fa, in un saggio pubblicato parzialmente sul Foglio e poi in un e-book della Fondazione PER (Il futuro della sinistra liberale, a cura di Claudia Mancina), ho provato a esplorare questa possibilità e ho raggiunto la conclusione che non esisteva. Oggi, pochi mesi dopo, sono costretto a confermarla. Anche ammesso che il prossimo governo  funzioni meglio dei due precedenti –  cosa , questa, possibile e che mi auguro; e anche se il prossimo presidente della Repubblica sarà la persona più adatta a questo ruolo di cui l’Italia dispone – cosa più improbabile ma non impossibile – è proprio il conflitto esasperato tra le forze politiche di governo e opposizione (e il conflitto interno a ciascuna di esse) quello che renderebbe assai difficile anche al migliore presidente della Repubblica, vincolato dai limiti costituzionali dei suoi poteri, dirigere il sistema verso una visione convergente dell’interesse nazionale. 

 
Le forze di opposizione, unite per l’occasione elettorale, si apprestano a una battaglia al calor bianco, e l’insoddisfazione dell’elettorato per il governo in carica le esimerà dal compito di indicare progetti realistici e poco attraenti per gli elettori, miranti a contrastare seriamente il declino italiano. Le forze di governo, divise al loro interno, saranno chiamate a un difficile compito di difesa, e probabilmente anch’esse cederanno a forme di propaganda estremistiche e ideologiche. E la vittoria elettorale dell’una o dell’altra coalizione – mi rifiuto dall’adottare i termini nobili di destra o sinistra, declinati in un contesto liberaldemocratico – molto difficilmente condurrà alla soluzione della crisi di sistema in cui la nostra democrazia boccheggia da trent’anni, da Mani pulite in poi: dopo le elezioni riprenderà, anche in un contesto elettorale proporzionale, il gioco di polemica astiosa e delegittimazione reciproca che ha caratterizzato la Seconda Repubblica. E questo, temo, durerà sino a quando un forte trauma esterno non costringerà il paese a ridisegnare le regole del gioco e forse diverrà possibile quella riforma costituzionale condivisa dai principali partiti  che stiamo attendendo da quarant’anni. A suo modo questa è una prospettiva “ottimistica”, anche se, attendendo il trauma esterno, il paese regredirebbe ulteriormente in qualsiasi scala di valutazione delle economie e società avanzate: l’alternativa è un caos nel quale, “quando il vecchio non muore e il nuovo non riesce a nascere”, nell’“interregno possono svilupparsi i fenomeni morbosi più svariati” (Gramsci).

 
Inutile dire che spero di sbagliarmi, e che il mio pessimismo sia esagerato. Che dove non vedo soluzioni – lo ripeto, auspicabili e soprattutto realistiche – altri le possano vedere e sostenere con buoni argomenti. Che sono vicino agli amici riformisti che combattono ogni giorno, nel governo, nel Parlamento, nei partiti, sui media le tante battaglie parziali di cui il riformismo si nutre. Il mio vuole solo essere un grido di allarme. La crisi di governo di questi giorni è la manifestazione di una più grave crisi dell’intero sistema politico e della democrazia del nostro paese e questa può spazzare via, se non viene arrestata, gran parte delle conquiste che il riformismo, la fase internazionale e la fortuna ci hanno consentito di ottenere.

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