PUBBLICITÁ

la nuova maggioranza

L'assalto a Italia viva, il soccorso degli eletti all'estero. Così Conte prova a resistere

Guerini e Zingaretti preferirebbero un nuovo governo. Il premier, insieme a Franceschini, prova a resistere: "I senatori di Renzi capiranno che Iv non ha futuro". Ma il Senato è una palude, e l'Udc si sfila

Valerio Valentini

Il premier s'affida a Franceschini per puntellare una maggioranza che non c'è. L'assedio al fortino di Renzi. Bisogna usare il Maie come contenitore di un gruppo che va dai garantisti di FI agli ex grillini manettari. E mercoledì, su Bonafede, può già venir giù tutto

PUBBLICITÁ

Lorenzo Guerini la dà ormai per irreversibile, la rottura. “Sei uno sciocco”, gli ha detto martedì a Palazzo Madama, col sorriso sulle labbra, dopo un anno che non gli rivolgeva la parola. “Se tu non fossi sciocco, faresti tu il premier”, gli ha risposto, sardonico, Matteo Renzi. Il quale sa, certo, che proprio il suo ex fedelissimo è quello che più di tutti s’affanna a ribadire che no, la riconciliazione non è pensabile. E però il ministro della Difesa è anche il più attivo, attraverso i suoi ambasciatori, nella ricerca dei senatori dissidenti, dentro Italia viva. “Per cui restiamo uniti per una settimana, e poi vedrete che si riaprono i giochi”, dice il senatore di Scandicci alla sua truppa. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Lorenzo Guerini la dà ormai per irreversibile, la rottura. “Sei uno sciocco”, gli ha detto martedì a Palazzo Madama, col sorriso sulle labbra, dopo un anno che non gli rivolgeva la parola. “Se tu non fossi sciocco, faresti tu il premier”, gli ha risposto, sardonico, Matteo Renzi. Il quale sa, certo, che proprio il suo ex fedelissimo è quello che più di tutti s’affanna a ribadire che no, la riconciliazione non è pensabile. E però il ministro della Difesa è anche il più attivo, attraverso i suoi ambasciatori, nella ricerca dei senatori dissidenti, dentro Italia viva. “Per cui restiamo uniti per una settimana, e poi vedrete che si riaprono i giochi”, dice il senatore di Scandicci alla sua truppa. 

PUBBLICITÁ

 

Certo Renzi ha pensato pure di chiuderli del tutto, i giochi. Perché martedì, un attimo prima di votare, ha riunito i suoi e li ha fulminati: “E se votassimo contro, così da mandare  il governo sotto?”. Poi la tentazione è sfumata: un po’ perché si correva sul filo della figuraccia (“Se diciamo No e poi dal centrodestra arrivano i responsabili,  è finita”), e un po’ perché nel gruppo qualcuno s’è opposto. Un paio di defezioni, in verità, le mette nel conto Renzi. Perché Eugenio Comincini da Cernusco sul Naviglio, e Leonardo Grimani da San Gemini, gliel’hanno detto con chiarezza che loro, se si arrivasse al punto di non ritorno, non se la sentirebbero di mettersi contro il partito nelle cui liste sono stati eletti, sotto il cui simbolo hanno fatto i sindaci delle loro città, le stesse da cui adesso gli arrivano i messaggi di protesta per questo azzardo. “Ma guardate che se il gruppo non si è disunito ora, con tutte le pressioni che ci sono arrivate, resterà compatto a lungo”, garantisce Ernesto Magorno, primo cittadino pure lui, di Diamante, e pure lui senatore di Iv. 

 

PUBBLICITÁ

Ma se anche fosse, queste sparute diserzioni non muterebbero gli equilibri di una maggioranza che al Senato semplicemente non c’è. E se ne sono accorti anche i ministri eletti a Palazzo Madama, che ieri mattina in tutta fretta sono stati mobilitati per correre a votare sulla pregiudiziale allo scostamento di Bilancio. Alla fine i renziani si sono astenuti, ma se si fossero uniti al centrodestra sarebbe andato tutto a ramengo. E in ogni caso non è con eventuali arrivi alla spicciolata, che si puntella il governo. “Servirebbero almeno dodici nuovi acquisti”, dice un ministro grillino. Servirebbero per fare un gruppo, così da ridefinire gli equilibri all’interno delle varie commissioni. Ma l’unico simbolo immediatamente disponibile sarebbe quello dell’Udc, col suo scudo crociato in dote. “Ma noi non sappiamo più come dirlo che non entreremo mai in questa maggioranza”, sbuffa al telefono Antonio Saccone. Lorenzo Cesa, segretario del partito, nei giorni scorsi agli emissari di Conte lo ha detto chiaro e tondo: “Non chiedetemi neppure se voglio, perché communque non posso”. Allusione a quei venti consiglieri regionali, a quei 1700 consiglieri comunali, che subirebbero l’immediata rappresaglia sovranista. E certo neppure il calendario, aiuta. Perché mercoledì prossimo, come primo atto di fede del nuovo corso “liberale”, “popolare”, “socialista”, Conte dovrà chiedere agli eventuali transfughi azzurri di votare per la relazione sulla Giustizia di Alfonso Bonafede. Si potrebbe rimandare, se non fosse che per farlo servirebbe, martedì, una deliberazione della conferenza dei capigruppo: dove però, per dire del pantano in cui si sta costruendo questa “cosa” nuova, la maggioranza non c’è più, senza Iv. “E se mi chiedete se davvero sono disposto a votare per Bonafede, riattacco”, sentenzia Saccone.

 

Disposti a votarla dovrebbero essere un manipolo di forzisti azzurri (oltre a Causin e Rossi, si parla della Minuto e di qualche altro) che s’aggiungerebbero ai cinque senatori eletti all’estero e a qualche ex grillino, come il manettaro  Giarrusso e il no-vax Ciampolillo. Tutti sotto un simbolo, Maie-Italia23, dietro cui c’è il gran trafficare di quel Raffaele Fantetti eletto al Senato con FI e grazie al sostegno della Lega. Insomma, un “gruppo Frankenstein” da far nascere entro pochi giorni.

 

L’unica scorciatoia, comunque, per evitare a Conte la via di un nuovo governo, che pure gli consigliano, dal Pd, sia Nicola Zingaretti sia Guerini, convinti che solo offrendo a Forza Italia un patto vero, che passi per un nuovo esecutivo e per la ridiscussione condivisa del Recovery plan, si possa costruire una maggioranza “Ursula” credibile. E però Conte recalcitra, non si fida. E anzi, s’affida a Dario Franceschini: l’unico, tra i dirigenti dem, seriamente convinto che un rimpasto, magari con l’aumento dei posti di governo stabilito per decreto e la conseguente offerta di incarichi, possa bastare. “Ma ci crede davvero, Dario?”, si chiedono i suoi. E nessuno si risponde. Salvo dire che, per il ruolo che s’è ritagliato di grand commis dell’alleanza rossogialla e per le prospettive che questo ruolo gli lascia intravvedere, lui sarà comunque l’ultimo, irriducibile, pretoriano di Conte. 

PUBBLICITÁ
PUBBLICITÁ