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Se ne va un gigante del riformismo italiano che mise in guardia dal populismo aggressivo

Michele Magno

Macaluso ha continuato a scrivere fino all'ultimo, non per vanagloria del suo pur prezioso passato ma per indagare il presente e scrutare il futuro di una sinistra in piena crisi identitaria

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Emanuele Macaluso ci ha lasciati nel sonno, come aveva sempre desiderato. Aveva quasi novantasette anni. Ci ha lasciati alla vigilia del centenario di quel Partito comunista di cui è stato dirigente di primo piano e autorevole esponente della corrente migliorista. L’unità della sinistra, la centralità della questione sociale e della questione meridionale sono stati i temi distintivi del suo pensiero e del suo impegno riformatore, anche dopo il frenetico cambio di nomi sfociato nella nascita del Pd (a cui non si è mai iscritto). Qui voglio ricordare solo la straordinaria vitalità intellettuale che ha conservato fino alla fine della sua lunga vita. Essa dimostra che l’età che conta è quella della mente, mentre l’età anagrafica non è di per sé indicativa di nulla. In un paese in cui la retorica del giovanilismo ha assunto talvolta aspetti grotteschi, si tratta di una verità che non andrebbe mai ignorata. “Se non scrivo, se non comunico quello che penso, per me è come morire”, confessava Emanuele nella prefazione al suo ultimo saggio, “La politica che non c’è” (2016).

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Emanuele Macaluso ci ha lasciati nel sonno, come aveva sempre desiderato. Aveva quasi novantasette anni. Ci ha lasciati alla vigilia del centenario di quel Partito comunista di cui è stato dirigente di primo piano e autorevole esponente della corrente migliorista. L’unità della sinistra, la centralità della questione sociale e della questione meridionale sono stati i temi distintivi del suo pensiero e del suo impegno riformatore, anche dopo il frenetico cambio di nomi sfociato nella nascita del Pd (a cui non si è mai iscritto). Qui voglio ricordare solo la straordinaria vitalità intellettuale che ha conservato fino alla fine della sua lunga vita. Essa dimostra che l’età che conta è quella della mente, mentre l’età anagrafica non è di per sé indicativa di nulla. In un paese in cui la retorica del giovanilismo ha assunto talvolta aspetti grotteschi, si tratta di una verità che non andrebbe mai ignorata. “Se non scrivo, se non comunico quello che penso, per me è come morire”, confessava Emanuele nella prefazione al suo ultimo saggio, “La politica che non c’è” (2016).

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Per appagare questa indomabile passione aveva trasferito ormai da tempo “em.ma”, la sua mitica firma, sul più popolare dei social network. Quasi ogni giorno ci regalava così su Facebook un corsivo dalla prosa asciutta e tagliente, che nulla concedeva alle seduzioni della nostalgia. Emanuele scriveva non per rimpiangere un passato che non c’è più, per lamentarsi delle proprie delusioni o per dare sfogo alle proprie inquietudini. Egli era infatti un combattente “totus politicus” con i piedi ben piantati nella vicenda del movimento operaio novecentesco, ma con la testa costantemente rivolta a indagare il presente e a scrutare il futuro possibile della sinistra italiana ed europea. Di una sinistra ancora in cerca di risposte nuove alle domande antiche di libertà e di eguaglianza. Di una sinistra oggi in debito di consensi, anche per il suo fiacco legame con la multiforme realtà del lavoro moderno; e in crisi di identità, anche per una insensata rottamazione della sua storia.

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Qui lo sguardo del più eretico dei togliattiani si faceva talvolta impietoso, ma il suo stile non era certo quello del predicatore saccente. Perché la preoccupazione che più lo assillava era il cedimento degli argini democratici a un populismo aggressivo e arrembante, il venir meno delle conquiste sociali e civili a cui ha partecipato da protagonista fin dall’esordio della Repubblica. “Il futuro ha un cuore antico”, recita il titolo di un noto libro di Carlo Levi. Emanuele ne è stato sempre convinto, e non per caso ha posto in calce a uno dei suoi testi più maturi, “Comunisti e riformisti” (2013), un proverbio cinese che dice: “Chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato”. Ma di una cosa deve essere sicuro: chi ha avuto la fortuna e il privilegio di conoscere la sua etica della responsabilità, le sue battaglie culturali e politiche non potrà mai dimenticarlo.

 

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