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Dalla politica al "giornalismo integrale"

Macaluso il combattente

Francesco Cundari

Per 96 anni ha incarnato la battaglia culturale e politica della sinistra italiana. Tre libri per ripercorrere la vita e il pensiero dell’intellettuale scomparso

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Ripercorrere la vita di Emanuele Macaluso significa ripercorrere l’intera storia della sinistra e dell’Italia repubblicana, e per chiunque si sia mai minimamente interessato all’una o all’altra, anche fare un lungo giro tra gli scaffali della propria libreria. Perché Macaluso, oltre che importante dirigente sindacale (nella Cgil), uomo politico (nel Pci) e giornalista (anzitutto all’Unità, di cui è stato direttore, e più tardi anche al Riformista), è stato prima di tutto un intellettuale e un formidabile polemista. Forse per lui si potrebbe riprendere quella definizione di “giornalismo integrale” usata da Antonio Gramsci. Certo è che pochi hanno concepito e praticato la lotta politica come battaglia culturale in modo più coerente, inflessibile e infaticabile di quanto abbia fatto lui, fino all’ultimo momento della sua vita. O perlomeno fino al penultimo, a giudicare dalle più recenti interviste in cui spiegava la decisione di abbandonare l’appuntamento pressoché quotidiano con la scrittura – per la seconda volta, in verità – dinanzi a un dibattito pubblico che gli appariva ormai privo di senso.

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Ripercorrere la vita di Emanuele Macaluso significa ripercorrere l’intera storia della sinistra e dell’Italia repubblicana, e per chiunque si sia mai minimamente interessato all’una o all’altra, anche fare un lungo giro tra gli scaffali della propria libreria. Perché Macaluso, oltre che importante dirigente sindacale (nella Cgil), uomo politico (nel Pci) e giornalista (anzitutto all’Unità, di cui è stato direttore, e più tardi anche al Riformista), è stato prima di tutto un intellettuale e un formidabile polemista. Forse per lui si potrebbe riprendere quella definizione di “giornalismo integrale” usata da Antonio Gramsci. Certo è che pochi hanno concepito e praticato la lotta politica come battaglia culturale in modo più coerente, inflessibile e infaticabile di quanto abbia fatto lui, fino all’ultimo momento della sua vita. O perlomeno fino al penultimo, a giudicare dalle più recenti interviste in cui spiegava la decisione di abbandonare l’appuntamento pressoché quotidiano con la scrittura – per la seconda volta, in verità – dinanzi a un dibattito pubblico che gli appariva ormai privo di senso.

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Che io sappia, in novantasei anni di vita, quasi tutti dedicati alla politica, c’era stata solo un’altra interruzione, nel 2015. Dopo la morte improvvisa, a sessantacinque anni, di suo figlio Pompeo. Per un lungo periodo Emanuele Macaluso rifiutò persino le interviste. Ricordo la sua voce al telefono – e dal lutto erano già passate settimane, se non mesi – spiegarmi semplicemente che dopo la morte di Pompeo non intendeva parlare più di niente, un attimo prima di attaccare. Di tanti suoi libri, tre sono quelli che preferisco. Il primo è “Leonardo Sciascia e i comunisti” (Feltrinelli, 2010). Libro complicato, che ripercorre uno dei filoni più forti dell’impegno politico di Macaluso, la lotta alla mafia ma anche contro un certo modo di fare o di strumentalizzare la lotta alla mafia, il tentativo di tenere insieme diritto, giustizia e questione sociale, sin dai tempi in cui lo slogan dei comunisti siciliani come lui era “né Mori né Mafia” (il riferimento era a Cesare Mori, il “prefetto di ferro” mandato da Mussolini). Vicende molto complicate che s’intrecciano in vario modo alla sua vita e a quella di Sciascia, e ancora oggi, eccome, alla storia della Repubblica.

 

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Ma il motivo per cui mi è rimasto impresso quel libro è il ricordo del fratello di Sciascia, Giuseppe, compagno di classe del fratello di Macaluso al “Minerario”. Ragazzo intelligente e gentile, ma timidissimo, che “arrossiva quando si facevano battute salaci”. Conseguito il diploma, il padre lo volle con sé in miniera, in una landa sperduta, e lui s’intristì al punto da togliersi la vita. Osserva a questo punto del racconto Macaluso: “La miniera non uccideva solo con il grisù, ma anche con l’isolamento e la brutalità di un’esistenza trascorsa tra uomini che lavoravano come bestie, rischiavano la vita, mangiavano pane e pomodoro, riposavano in case che non erano case e aspettavano la fine della settimana o della quindicina per tornare al paese, in famiglie che in effetti non erano tali”. Dopodiché aggiunge: “Non è, questa, una digressione, perché ci conduce alla domanda: come e quanto influì l’assetto sociale in cui vivevamo negli anni Trenta-Quaranta, con la dittatura fascista e le guerre (in Etiopia, in Spagna, nel mondo), sulla scelta che facemmo, noi giovani, di lottare con il Partito comunista per la libertà e l’emancipazione della nostra gente?”.

 

Non vorrei che sembrasse un inizio inutilmente retorico. Forse però si capisce meglio la ragione della mia scelta passando al secondo libro di cui volevo parlare, “50 anni nel Pci” (Rubbettino, 2003), perché le sue pagine – dove racconta di quando era anche lui uno studente dell’Istituto minerario, insieme con i suoi due fratelli, che si passavano i libri “come vestiti rivoltati” – illuminano anche le precedenti. Una notte, racconta, si svegliò con la bocca piena di sangue. Emottisi, disse il medico, e lo ricoverarono. “La memoria mi restituisce spesso – prosegue – l’immagine di tanti miei compagni con cui condividevo le giornate in sanatorio i quali nonostante le cure (pneumotorace, endovenosa di calcio, riposo sulle sedie-sdraio collocate sui terrazzi all’aria e al sole) non se la cavarono. Il sanatorio per me, che avevo 16 anni quando entrai, fu una grande esperienza umana: c’era un mondo a me in parte sconosciuto, incontrai persone dolci e dure, rassegnate e determinate, povere e agiate, vivaci e depresse. Uomini che erano in ospedale da anni, venivano da altri sanatori, o erano rientrati dopo una guarigione effimera, tutti in attesa di sapere e di capire se potevano contare ancora su alcuni anni di vita. Io speravo di arrivare a trent’anni, ma questa mi sembrava una meta lontana e irraggiungibile”.

 

Forse sbaglio, in una vita che al contrario delle sue previsioni è stata tanto lunga e ha attraversato tanti passaggi decisivi della nostra storia, nel soffermarmi su questi anni, ma non credo che si potrebbe capire niente di quel che è venuto dopo – capirlo davvero, dico – senza tenere a mente che nel 2003, in un libro dedicato al Pci (e alla sua esperienza nel Pci), Macaluso cominciava istintivamente da lì. “Ho un ricordo nitido della degradazione e della violenza che mi ferivano negli anni della fanciullezza”, scrive, rievocando i pianterreni occupati dagli zolfatari, dove vivevano in dieci in uno stanzone. E il compagno di giochi il cui padre, “come tutti gli zolfatari”, tornava dalla miniera ogni quindici giorni, “la sera si ubriacava e picchiava la moglie e i figli Rosa, Maria, Minicu”. Bisogna provare a seguire il filo dei suoi pensieri. “Il lunedì, alle quattro di mattina, d’estate o d’inverno, con l’aria fresca e dolce o con il freddo, la pioggia o la neve (a Caltanissetta nevicava), con la lampada ad acetilene in mano e una sacca con le provviste, il picconiere si incamminava con altri e percorreva a piedi 10-15 chilometri per riprendere il lavoro nelle miniere di Trabonella, Giumintarello, Gessolungo, sino alla più lontana Giumentaro”. Qui Macaluso va a capo. Quindi aggiunge una frase importante: “La mia rivolta contro l’ingiustizia e la sopraffazione cominciò con l’odio che covavo nei confronti del picconiere Bellavia, uno sfruttato, che però sentivo picchiare la moglie, le figlie, il mio amico Minicu”.

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Ecco, sono finalmente arrivato al punto da cui avrei voluto iniziare, quando dovrei essere quasi alla fine, ma non credo che mancheranno articoli e interviste che si diffonderanno in dettaglio – come è giusto che sia – sull’operazione Milazzo in Sicilia, sugli anni in segreteria con Enrico Berlinguer, sulle tante battaglie di Macaluso dentro il Pci. Ma l’immagine del picconiere Bellavia, uno sfruttato, che però picchia la moglie, i figli, il piccolo Minicu, credo aiuti a comprendere meglio il senso di un percorso peraltro singolarmente lineare, tra Palmiro Togliatti, Giorgio Napolitano e il socialismo europeo, che non volle mai cedere a facili semplificazioni, alla demagogia e al populismo. Motivo per cui Macaluso è apparso, a seconda delle stagioni, troppo di destra o troppo di sinistra, modernizzatore o antiquato, senza che questo ne scalfisse mai le convinzioni, nemmeno quando tutti gli altri andavano in direzione opposta. Non cambiò idea ai tempi dello scontro più duro tra il Pci berlingueriano (e post-berlingueriano) con Craxi, sulla linea della questione morale, quando la sua corrente era accusata di intelligenza con il nemico (“Giorgio e io – ricorderà – insieme a Chiaromonte, a Lama, a Bufalini, a Cervetti e a un’area non piccola del partito, contestavamo quella scelta. Condividevamo la critica a Craxi, ma non volevamo arrivare alla rottura con il Psi. Ingrao ci chiamò ‘miglioristi’, paragonandoci alle leghe del migliorismo prampoliniano, che puntavano a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori senza avere un progetto socialista”).

 

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E non ha mai cambiato idea sul Pd, partito che ha sempre considerato un errore storico, proprio per l’abbandono del riferimento al socialismo (specialmente nella fase fondativa, poi la storia si complica un po’, ma questo è il mio parere e non il suo). Non per niente intitolò il suo libro, uscito giusto in quel 2007 in cui si fondava il Partito democratico: “Al capolinea”. Non è il terzo libro di cui volevo parlare – di “Al capolinea” non potrei parlare comunque, perché non credo neanche di averlo letto tutto – ma va citato perché introduce un altro tema che non può essere tralasciato, e cioè la polemica con Eugenio Scalfari, in quel caso a proposito di un articolo in cui il fondatore di Repubblica aveva detto che Ds e Margherita dovevano fondersi perché erano due partiti al capolinea. Di qui l’obiezione di Macaluso, ampiamente sviluppata nel libro, secondo cui due partiti che sono entrambi al capolinea, se si mettono insieme, sempre al capolinea restano. Il confronto con Scalfari e la sua Repubblica è stato una costante significativa del Macaluso giornalista, e anche del Macaluso politico.

 

“Da quando è stata fondata – ricordava nel 2009 – Repubblica si è assegnata il compito di influenzare non solo la politica, com’è naturale, ma anche la vita interna dei partiti, per favorire scelte e leadership più omogenee alla sua linea”. Dirigente del Pci e direttore dell’Unità negli anni Ottanta, Macaluso ha pertanto polemizzato spesso con Scalfari. “Ma sembrava che questo non si potesse fare. In direzione qualcuno sollevò il problema, su suggerimento di Tonino Tatò, sostenendo che le mie polemiche danneggiavano il partito”. E’ un punto importante perché testimonia la sua fermissima idea di autonomia della politica e al tempo stesso la sua concezione della politica come costante battaglia culturale, che non può conoscere pause o cedimenti. Una posizione che non si può capire fino in fondo senza ripartire da Togliatti, cioè dal terzo libro di cui volevo parlare, a cominciare dal suo singolarissimo titolo, che molti considererebbero un ossimoro: “Comunisti e riformisti – Togliatti e la via italiana al socialismo” (Feltrinelli, 2013). Sfortunatamente, però, ho finito lo spazio. Pertanto, credo proprio che ve lo dovrete leggere.

 

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