PUBBLICITÁ

La mediazione impossibile del Pd e del Colle tra a Renzi e Conte

Valerio Valentini

Le telefonate di Zingaretti al premier: "Coi responsabili non si va lontano". La tela di Franceschini e Mattarella per spingere Giuseppi a riaprire le trattative. Ma Renzi prima rilancia, poi tira dritto. Le lusinghe a Nencini, le minacce su simbolo e staff. Poi le dimissioni delle ministre di Iv

PUBBLICITÁ

Che il metro di valutazione, e pure gli obiettivi, fossero inconciliabili, s’è capito poco dopo le quattro del pomeriggio. Quando Nicola Zingaretti, col tono speranzoso, è tornato a contattarlo per avere da lui la certezza che l’apertura di Giuseppe Conte fosse stata sufficiente. “Be’, mi pare  un passo in avanti, no?”. E allora Matteo Renzi ha scambiato un’ultima occhiata coi suoi, coi fidi Ettore Rosato e Francesco Bonifazi che gli sono stati accanto tutta la giornata, col sottosegretario Ivan Scalfarotto e le ministre Elena Bonetti e Teresa Bellanova, ha preso un po’ di tempo. Poi ha risposto: “A me pare niente”. Ed è stato inevitabile, lì, che chi per quell’intesa quasi impossibile aveva a lungo lavorato, spendendo di sé la miglior parte delle proprie diplomazie, ha visto quel rifiuto come un atto di scriteriata arroganza: “Quello di Iv è un errore gravissimo, un atto contro l’Italia”, dice il segretario del Pd.   

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Che il metro di valutazione, e pure gli obiettivi, fossero inconciliabili, s’è capito poco dopo le quattro del pomeriggio. Quando Nicola Zingaretti, col tono speranzoso, è tornato a contattarlo per avere da lui la certezza che l’apertura di Giuseppe Conte fosse stata sufficiente. “Be’, mi pare  un passo in avanti, no?”. E allora Matteo Renzi ha scambiato un’ultima occhiata coi suoi, coi fidi Ettore Rosato e Francesco Bonifazi che gli sono stati accanto tutta la giornata, col sottosegretario Ivan Scalfarotto e le ministre Elena Bonetti e Teresa Bellanova, ha preso un po’ di tempo. Poi ha risposto: “A me pare niente”. Ed è stato inevitabile, lì, che chi per quell’intesa quasi impossibile aveva a lungo lavorato, spendendo di sé la miglior parte delle proprie diplomazie, ha visto quel rifiuto come un atto di scriteriata arroganza: “Quello di Iv è un errore gravissimo, un atto contro l’Italia”, dice il segretario del Pd.   

PUBBLICITÁ

 

Il tentativo disperato di evitare lo sbrego definitivo era iniziato dal mattino. Anzi, già dalla sera prima. Quando, nel Cdm, lo strano entusiasmo di Dario Franceschini nel lodare “il lavoro condiviso” che aveva portato a migliorare, “tutti insieme”, il testo del Recovery plan, era parso sospetto. Poi, quando tra la Bellanova e i colleghi Speranza e Gualtieri s’era accesa la baruffa sul Mes, il capo delegazione del Pd s’era chiuso in un mutismo da sfinge. Ma già aveva iniziato a filare la lana. E così poche ore dopo, all’alba del giorno della resa dei conti, d’intesa con Zingaretti e con Lorenzo Guerini, ha aperto il tavolo delle negoziazioni. 

 

PUBBLICITÁ

E allora per prima cosa, il ministro della Cultura ha preteso che si togliesse di mezzo l’ingombro più grosso e al tempo stesso più impalpabile sulla via verso la riconciliazione: i responsabili. “Ma la minaccia di andare allo showdown in Aula va portata avanti”, insistevano i ministri più vicini al premier, “così isoliamo Renzi”. Al che Zingaretti, a ora di pranzo, prende il telefono e chiarisce il punto al premier: spiegandogli insomma che non è solo “una questione aritmetica”, è che “per il Pd reggere il peso di un governo che si basa sui responsabili diventerebbe difficile”. Ed è lì che, su spinta di Franceschini, uno che col Colle ha sempre il filo più diretto di tutti, Conte si decide a recarsi da Sergio Mattarella. Al quale riferisce sullo stato dell’arte delle trattative, venendo catechizzato sul da farsi. Che è poi in linea con quel che gli chiedeva anche il Pd: offrire a Renzi un gesto di rappacificazione, proporgli un patto di legislatura. Riaprire il dialogo. “Se non altro per togliergli l’alibi”, provano a convincerlo dal Nazareno.

 

E così, mentre riceve le suppliche di due negozianti davanti a Piazza del Parlamento (“Presidente, ci aiuti coi ristori”; “Ma arrivano, no?”; “Sì, ma non bastano”), Conte tende la mano all’odiato senatore di Scandicci. Fa il minimo sindacale, forse. Ma abbastanza per ottenere il plauso dello stato maggiore del Pd. Che però sa che a quel punto solo metà del lavoro è stato compiuto. Quel che manca è convincere Renzi ad accettare il patto.

 

E che sia arduo lo sanno bene, se è vero che per tutta la mattina ai dirigenti dem è toccato rincorrere il loro ex segretario come il gatto col topo, con loro che lo aggiornavano sui progressi della trattativa e lui che ogni volta scartava di lato, e rilanciava. “Matteo, Conte chiude coi responsabili”; “E’ perché non li ha trovati”. “Matteo, Conte va al Colle”; “Ma mica si dimette”. “Matteo, Conte fa un patto di legislatura”; “Ci mettiamo dentro anche il Mes?”. E siccome ogni opera di persuasione necessita anche delle intimidazioni, ecco che si diffondono le ricostruzioni più malevoli: questioni legate agli staff delle ministre, ai loro contratti da risolvere. Si arriva perfino a prospettare una promozione nella squadra di governo di Riccardo Nencini in quota Conte, così da privare Renzi del simbolo del Psi necessario per garantire l’esistenza del gruppo di Iv a Palazzo Madama, e costringere la sua pattuglia nel girone infernale del Misto. Renzi tentenna, ci pensa: condivide i suoi dubbi anche con Franceschini e Andrea Marcucci. Poi, alle sei di sera, invia il messaggio nella chat dei suoi parlamentari: “Tra qualche minuto entriamo in conferenza stampa con Teresa, Elena e Ivan. Voglio dire che sono fiero e orgoglioso di questa comunità che fa politica con coraggio e libertà”. Dimissioni, sipario.

PUBBLICITÁ
PUBBLICITÁ