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la crisi di governo

Così il partito del non voto di Pd e M5s frena l'azzardo di Conte verso le urne

Valerio Valentini

Giuseppe forza la mano e pensa a un suo partito, Casalino chiede a Di Maio e soci una prova di fedeltà. Ma il corpaccione parlamentare rossogiallo si mette di traverso. La rabbia del Pd verso Palazzo Chigi. L'avvertimento di Guerini e Zingaretti. E Renzi predica cautela: "Alle elezioni non si andrà"

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Lorenzo Guerini, che la sa lunga, venerdì scorso ha tentato di rassicurare i suoi parlamentari di Base riformista. Garantendo loro che sì, finora si è rimasti prudenti e attendisti, nei rapporti con Nicola Zingaretti, ma che questa cordialità non presuppone l’indolenza. “Perché l’ingenuità – ha spiegato il ministro della Difesa – in politica non è un valore neppure cristiano”. Segno, insomma, che se al Nazareno qualcuno coltiva l’idea di approfittare del precipitare degli eventi per andare alle urne e azzerare i gruppi di Camera e Senato, il corpaccione del Pd non si offrirà come vittima sacrificale. 

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Lorenzo Guerini, che la sa lunga, venerdì scorso ha tentato di rassicurare i suoi parlamentari di Base riformista. Garantendo loro che sì, finora si è rimasti prudenti e attendisti, nei rapporti con Nicola Zingaretti, ma che questa cordialità non presuppone l’indolenza. “Perché l’ingenuità – ha spiegato il ministro della Difesa – in politica non è un valore neppure cristiano”. Segno, insomma, che se al Nazareno qualcuno coltiva l’idea di approfittare del precipitare degli eventi per andare alle urne e azzerare i gruppi di Camera e Senato, il corpaccione del Pd non si offrirà come vittima sacrificale. 

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E che la tentazione del redde rationem ci sia, in effetti, in alcuni dei fedelissimi di Nicola Zingaretti, lo dimostra  Marco Miccoli. Il quale, di buon mattino, nella giornata che segna l’apice della tensione, pensa bene di evocarla esplicitamente l’ipotesi delle elezioni anticipate: “A giugno si può votare”, scrive su Facebook il responsabile al Lavoro della segreteria dem.

 

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E tanto basta perché nei gruppi parlamentari scatti una mezza sommossa, con tanto di richiesta di chiarimento fatta giungere a Zingaretti. Il quale, in effetti, di lì a poco chiuderà la polemica: “Le elezioni ora sarebbero una sciagura”. Certo, è una sciagura “dentro cui si può scivolare se non si trovasse l’accordo, visto che questa è una crisi che si apre al buio”, ci dirà, molte ore dopo, lo stesso Miccoli, col tono di chi si adegua alla linea ufficiale. “Volevo solo avvertire – ci spiega – che è un rischio da non sottovalutare”. 

 

Ma in fondo il partito del non voto travalica i confini dei singoli partiti e delle coalizioni, come sempre. E non solo per la solita storia - sempre vera, per carità, sempre valida - dei mutui già stipulati, degli stipendi troppo appetitosi e della desolante prospettiva del ritorno alla vita di prima. “C’è che davvero l’unico interesse a rompere, in questo momento, starebbe nell’annichilire Matteo Renzi”, ci dice un sottosegretario del M5s, che certo non disdegnerebbe il poter dare un dispiace al leader di Iv. E però, come ha detto Carmelo Miceli durante la riunione dei deputati del Pd due giorni fa, “la posta in palio è troppo alta: significa regalare il Recovery a Salvini e Meloni, e regalargli pure la maggioranza assoluta in Parlamento, e quindi la scelta del prossimo presidente della Repubblica a gennaio”. Umori trasversali, appunto.

 

E così quando YouTrend ha diffuso le proiezioni in caso di voto col Rosatellum, lunedì, nelle chat del M5s sono partiti i pernacchi verso l’ipotesi di una corsa al voto che vedrebbe il partito che è oggi è quello di maggioranza relativa ridotto a un unico punto giallo tra Acerra e Napoli: la riserva indiana intorno a casa di Luigi Di Maio e Roberto Fico, e poco più. Figurarsi, quindi, le reazioni che in parecchi, tra parlamentari ed esponenti di governo, hanno avuto nel ritrovarsi, all’alba, i messaggi di Rocco Casalino che, dal fortino di Palazzo Chigi, esortava tutti ad adeguarsi alla “batteria” contro Renzi: per dire, cioè, che se il senatore di Scandicci dovesse ritirare le sue ministre, qualsiasi ipotesi di futura riconciliazione tra il M5s e Iv diventerebbe impossibile. Al che loro si sono adeguati, ma con l’animo di chi vuole evitare di ingenerare sospetti. “Anche perché Conte ora chiede aiuto al M5s come se fosse il suo partito”, sbuffano nel gruppo grillino, ma quando s’è trattato di assegnare quella delega ai servizi per la quale sgomitavano sia Stefano Buffagni sia Angelo Tofalo, “in quel caso si è detto privo di un ‘suo’ partito”. E non è un caso se proprio Federica Dieni, deputata del M5s in servizio al Copasir, si sia messo a capo di una fronda che dice che per il Movimento “nessuno è indispensabile, neppure Giuseppe”. Per cui, quando  sono iniziate a circolare le indiscrezioni sul “partito di Conte”, con tanto di nome e simbolo (“Insieme”) già depositato da un notaio romano, per lo più sono stati i grillini, i primi a scuotere la testa.  

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E insomma il paradosso è che la minaccia con cui s’è provato per settimane a far recedere Renzi dai suoi propositi bellicosi, proprio nel momento in cui quei propositi si concretizzano, d’improvviso s’affloscia. Perfino Dario Franceschini, che pure della logica della deterrenza era stato il principale sostenitore, di fronte alle scomposte uscite di Conte di ieri ha alzato le mani. E durante un vertice coi capigruppo, Andrea Orlando e lo stesso Zingaretti, s’è guardato bene dal proporre il ritorno come soluzione. Resta là, certo, l’ipotesi: ma più come un incidente da scansare, uno spauracchio da evitare, che non come un’arma da brandire. Il che dimostra che Renzi non aveva tutti i torti, giorni fa, quando ai suoi parlamentari preoccupati di un possibili scivolamento verso il voto anticipato, dispensava cautela: “Per certi versi converrebbe perfino a noi, adesso. Perché M5s e Pd si alleerebbero, e noi ci proporremmo come forza alternativa al grillismo. Ma vedrete che non si andrà a votare: perché nessun segretario del Pd sopravvive a un voto che non lo manda a Palazzo Chigi”. Parlava anche per esperienza, certo. 

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