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Un'altra agenda è possibile

Ripartire da Draghi si può

I politici evocano Draghi per creare zizzania ma dimenticano le sue lezioni quando si tratta di governare. Crescita, lavoro, stati, coraggio di scegliere. Il monumentale rapporto Draghi sulle imprese del futuro, contro la nuova politica degli zombie

Claudio Cerasa

Un’economia desiderosa di scommettere sulla crescita dell'occupazione, sugli investimenti di lungo periodo, sulla produttività media di ciascun settore, più che usare il nome dell’ex governatore della Bce per disegnare incomprensibili traiettorie della politica dovrebbe fare uno sforzo in più: non evocare Draghi, ma limitarsi a leggerlo, e magari provare a capirlo

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Lo spettacolo osceno della quasi crisi di governo proiettato ormai da giorni sugli schermi della nostra crisi pandemica – con i politici che da settimane discutono in modo spensierato di rimpasto, di verifica, di task force, curandosi poco di cosa significhi discutere di tutto questo con 800 morti al giorno – è improvvisamente entrato in quella che potremmo definire la famosa “fase Draghi”. Dal punto di vista politico, la “fase Draghi” è una fase in cui gli avversari dell’attuale presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, usano a vario titolo il nome dell’ex governatore della Bce per evocare una suggestione che grosso modo suona così: se un profilo come quello di Draghi fosse disposto a prendere la guida del governo, cosa che si augurano a vario titolo non solo Matteo Renzi ma anche Giancarlo Giorgetti, Gianni Letta e qualche pezzo da novanta del M5s, non ci vorrebbe molto a sostituire l’attuale maggioranza con una maggioranza più larga e con un premier diverso.

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Lo spettacolo osceno della quasi crisi di governo proiettato ormai da giorni sugli schermi della nostra crisi pandemica – con i politici che da settimane discutono in modo spensierato di rimpasto, di verifica, di task force, curandosi poco di cosa significhi discutere di tutto questo con 800 morti al giorno – è improvvisamente entrato in quella che potremmo definire la famosa “fase Draghi”. Dal punto di vista politico, la “fase Draghi” è una fase in cui gli avversari dell’attuale presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, usano a vario titolo il nome dell’ex governatore della Bce per evocare una suggestione che grosso modo suona così: se un profilo come quello di Draghi fosse disposto a prendere la guida del governo, cosa che si augurano a vario titolo non solo Matteo Renzi ma anche Giancarlo Giorgetti, Gianni Letta e qualche pezzo da novanta del M5s, non ci vorrebbe molto a sostituire l’attuale maggioranza con una maggioranza più larga e con un premier diverso.

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La “fase Draghi”, da mesi, viene richiamata dunque per questioni che hanno a che fare più con la tattica che con la strategia e ogni volta che in politica qualcuno lancia questa suggestione ci si concentra molto su ciò che Draghi rappresenta e poco su ciò che Draghi invece dice. Senza capire però che la vera discontinuità di cui l’Italia ha bisogno si trova più in quello che Draghi dice che in quello che Draghi al momento può fare. E in questo senso il rapporto di settantaquattro pagine dedicato alla ristrutturazione delle imprese dopo l’epidemia, curato da Draghi in persona per il famoso Group of Thirty, think tank di consulenza su questioni di economia monetaria e internazionale, meriterebbe di essere messo al centro del dibattito pubblico non tanto per ciò che Draghi rappresenta ma per ciò che Draghi ha il coraggio di dire.

 

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E’ stato detto che il rapporto Draghi suggerisce ai governi di sostenere le imprese abbandonando il sentiero della decrescita e dell’erogazione a pioggia di tanti inutili sussidi per imboccare la strada della crescita e degli investimenti. Ma il rapporto dice molto di più e mette in un certo senso la politica di fronte a una scelta ben più problematica di una verifica di governo: sostenere l’economia guardando al futuro o sostenere l’economia restando ostaggi del passato. All’interno di questa scelta vi è tutto lo spirito della dottrina Draghi e vi è anche il senso più profondo della sfida che spetta ai governi di tutto il mondo: avere il drammatico coraggio di scegliere quali imprese sostenere e quali imprese lasciare fallire. “Le scarse risorse pubbliche – si legge nel rapporto – dovrebbero essere destinate alla correzione dei fallimenti del mercato che danneggerebbero in modo grave l’economia e dovrebbero essere destinate a quelle realtà capaci di conservare valore e di crearne di ulteriore nel futuro. Non tutte le aziende potranno essere supportate e su questo fronte i governi dovranno essere espliciti e chiari rispetto alle loro priorità”. E per fare questo, si legge ancora nel rapporto, occorre aprire gli occhi e concentrarsi su quelle che si potrebbero definire le “aziende zombie”. Queste aziende, si ricorda, sono quelle che si trovano in una condizione particolare: non sono in grado di coprire i costi di servizio del debito con i profitti correnti e dipendono ormai da troppo tempo da ciò che gli offrono i creditori. Il termine “zombie” non è stato scelto in modo casuale, con particolari riferimenti alla cultura splatter, ma è riferito a un periodo storico preciso immediatamente successivo al grande crollo registrato nel 2001 dall’economia giapponese.

 

“Diversi studi – si legge ancora nel rapporto – suggeriscono che le aziende zombie, in seguito alla crisi, hanno contribuito a rendere stagnante l’economia e la loro presenza ha contribuito a distorcere la concorrenza sul mercato con effetti a catena anche sui profitti delle aziende sane, oltre che sulla crescita dell’occupazione, sugli investimenti di lungo periodo, sulla produttività media di ciascun settore, sulla capacità di creare aggregazioni e di eliminare le barriere all’ingresso dell’economia”. Da qui la considerazione della Draghi Associati: in presenza di una situazione come quella che stiamo vivendo oggi, ovverosia con una ingente mole di debito utilizzata per sostenere le crisi aziendali, la possibilità che vi sia un numero spropositato di aziende zombie, capaci di pesare in modo negativo sulle prospettive di crescita di ciascun paese, è troppo elevata, e la presenza di queste aziende rende più difficile del previsto la riorganizzazione dell’economia. Per quanto possa essere edulcorato il messaggio contenuto nel rapporto è tanto crudo quanto prezioso: un’economia che vuole tornare a crescere deve decidere, come ha sostenuto mesi fa il presidente francese Emmanuel Macron, se vuole riprodurre esattamente lo stesso sistema di un tempo, versando miliardi di sovvenzioni, anche nei settori che sappiamo che non potranno operare come prima, o se vuole trasformare il rischio in chance, la crisi in opportunità, investendo prioritariamente nei settori più trainanti, quelli che guideranno l’economia e creeranno i lavori di domani.

 

Buttare via un’azienda che ha un futuro, dice Draghi, vuol dire sprecare capitale umano. Tenere in piedi un’azienda che non ha futuro, significa occuparsi dei singoli lavoratori senza pensare davvero al loro futuro. Un’economia desiderosa di scommettere sulla crescita dell'occupazione, sugli investimenti di lungo periodo, sulla produttività media di ciascun settore, più che usare il nome dell’ex governatore della Bce per disegnare incomprensibili traiettorie della politica dovrebbe fare uno sforzo in più: non evocare Draghi, ma limitarsi a leggerlo, e magari provare a capirlo.

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