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Nel Pd si invoca il rimpasto, ma prima c'è il Covid

Valerio Valentini

Nella direzione il riassetto di governo è invocato un po' da tutti, tranne Franceschini (che resta in silenzio). Zingaretti annuncia il tavolo di confronte con Conte, che però fa spallucce. La resa dei conti rinviata a gennaio, sempre che la pandemia non scombini i piani

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L’hanno evocato un po’ tutti, senza nominarlo davvero. Ma nella direzione del Pd di ieri, la voglia di rimpasto è stata il rumore di fondo che ha accompagnato tutta la discussione. Lo ha prospettato per primo, intervenendo subito dopo il segretario, Michele Bordo, ponendo il tema di un “rafforzamento delle competenze al governo” e parlando in nome e per conto di quell’Andrea Orlando che del riassetto dell’esecutivo ha da tempo fatto un suo cruccio. E però l’ex Guardasigilli ha avuto buon gioco, ieri, a mostrare come non sia solo un suo capriccio: perché di “sistemare”, “rilanciare”, “dare la scossa” lo hanno chiesto un po’ tutti: da Barbara Pollastrini, area Cuperlo, a Matteo Orfini, da Alessandro Alfieri, gueriniano di Base Riformista, fino Goffredo Bettini. Insomma, “la consapevolezza è diffusa”, spiega Orlando ai colleghi deputati: “la consapevolezza, cioè, che senza correttivi, almeno programmatici, rischiamo di farci male”. E non a caso l'unica componente a non esprimersi è quella di Dario Franceschini, che impone ai suoi la consegna del silenzio: segno di come il governismo a prescindere, il quieta non movere et mota quietare che il capo delegazione dem ha adottato come bussola sua e del partito in questa fase, sia difficile da sostenere. 

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L’hanno evocato un po’ tutti, senza nominarlo davvero. Ma nella direzione del Pd di ieri, la voglia di rimpasto è stata il rumore di fondo che ha accompagnato tutta la discussione. Lo ha prospettato per primo, intervenendo subito dopo il segretario, Michele Bordo, ponendo il tema di un “rafforzamento delle competenze al governo” e parlando in nome e per conto di quell’Andrea Orlando che del riassetto dell’esecutivo ha da tempo fatto un suo cruccio. E però l’ex Guardasigilli ha avuto buon gioco, ieri, a mostrare come non sia solo un suo capriccio: perché di “sistemare”, “rilanciare”, “dare la scossa” lo hanno chiesto un po’ tutti: da Barbara Pollastrini, area Cuperlo, a Matteo Orfini, da Alessandro Alfieri, gueriniano di Base Riformista, fino Goffredo Bettini. Insomma, “la consapevolezza è diffusa”, spiega Orlando ai colleghi deputati: “la consapevolezza, cioè, che senza correttivi, almeno programmatici, rischiamo di farci male”. E non a caso l'unica componente a non esprimersi è quella di Dario Franceschini, che impone ai suoi la consegna del silenzio: segno di come il governismo a prescindere, il quieta non movere et mota quietare che il capo delegazione dem ha adottato come bussola sua e del partito in questa fase, sia difficile da sostenere. 

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Tutti lo invocano, dunque, questo rimpasto, tranne Nicola Zingaretti. Che pure, però, inaugura la direzione con un intervento risoluto, pronunciato col piglio deciso di chi l’adrenalina della vittoria delle regionali non l’ha ancora smaltita, e allora rivendica la centralità del Pd e ribadisce l’esigenza di un “cambio di passo al governo” perché “con questo mare in tempesta non è il momento di navigare a vista”. Solo che, anche dalla tolda del Nazareno, la strada per arrivarci a questa svolta non è ancora chiara. Perché bisogna attendere che Giuseppe Conte finisca di attendere che il M5s risolva le sue fibrillazione negli Stati generali di metà novembre, e poi chiedere con forza il tavolo di confronto, per il “patto di fine legislatura”. Può essere quella l’occasione in cui incalzare il premier, contando anche sulla baldanza di Italia viva (non sono passate inosservate, ieri, le parole di apprezzamento di Zinga nei confronti di Renzi). E però, a quel punto, che fare?

 

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Il Mes, certo, resta il tema più scivoloso. Anche nel Pd, peraltro. Perché Zinga, dopo aver prima forzato la mano e poi rallentato su suggerimento del ministro Gualtieri, ora si trova a metà strada – e del resto è la sua cifra, questa, e la sua forza – tra i cauti e gli arrembanti. Come Stefano Bonaccini, ad esempio. Che ieri, cogliendo al volo le frecciate di Zinga sul Mes, ha subito rilanciato: “Guardate che noi governatori ne abbiamo davvero bisogno, e subito, di quei fondi. E le idee su come spenderli le abbiamo, qui in Emilia. Se volete ve ne diamo qualcuna”. Ma non sarà la tattica politica, a imporre la forzatura sul Mes. Lo sarà, semmai, l’emergenza sanitaria. “Noi facciamo grandi ragionamenti, ma fino a gennaio tutto dipenderà da cosa succede col Covid”, dice un ministro dem. “La pandemia può congelare tutto, o travolgerci. E allora il rimpasto potrebbe anche non bastare”.

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