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È tempo di una nuova destra

Michele Salvati

Non bisogna guardare a sinistra o al centro per capire qual è il partito che può aiutare l’Italia a ritrovare se stessa. Per combattere il populismo e far crescere il paese è ora di impegnarsi a destra. Idee per un manifesto

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Ci sono due grandi linee di conflitto politico nelle democrazie dei paesi economicamente avanzati. Una è tra chi difende una democrazia parlamentare basata su principi liberal-democratici contro chi a questi principi è meno sensibile: di costoro i populisti sono oggi i rappresentanti tipici, assecondando pulsioni estremistiche presenti tra gli elettori e traducendole in proposte politiche irrealistiche e dannose. L’altra, che è stata prevalente sino a tempi recenti ed è sempre molto forte, è quella tra destra e sinistra, sulla base di diverse formulazioni, più o meno esigenti, del principio di uguaglianza (meglio: di pari opportunità). Preferisco questa definizione delle “due linee” ad altre che ad esse si sovrappongono, in particolare a quella tra sostenitori o contrari all’apertura internazionale, tra “cosmopoliti” e “nazionalisti”. Queste sono categorie descrittive che non colgono il significato politico di destra e sinistra: ceti ricchi e istruiti, cosmopoliti e internazionalisti anche perché avvantaggiati dalla globalizzazione, possono essere di destra o di sinistra, come lo possono essere ceti poveri e meno istruiti, solitamente facile preda di movimenti populisti e inclini a ritenere che debba essere lo stato nazionale a provvedere direttamente al loro benessere.

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Ci sono due grandi linee di conflitto politico nelle democrazie dei paesi economicamente avanzati. Una è tra chi difende una democrazia parlamentare basata su principi liberal-democratici contro chi a questi principi è meno sensibile: di costoro i populisti sono oggi i rappresentanti tipici, assecondando pulsioni estremistiche presenti tra gli elettori e traducendole in proposte politiche irrealistiche e dannose. L’altra, che è stata prevalente sino a tempi recenti ed è sempre molto forte, è quella tra destra e sinistra, sulla base di diverse formulazioni, più o meno esigenti, del principio di uguaglianza (meglio: di pari opportunità). Preferisco questa definizione delle “due linee” ad altre che ad esse si sovrappongono, in particolare a quella tra sostenitori o contrari all’apertura internazionale, tra “cosmopoliti” e “nazionalisti”. Queste sono categorie descrittive che non colgono il significato politico di destra e sinistra: ceti ricchi e istruiti, cosmopoliti e internazionalisti anche perché avvantaggiati dalla globalizzazione, possono essere di destra o di sinistra, come lo possono essere ceti poveri e meno istruiti, solitamente facile preda di movimenti populisti e inclini a ritenere che debba essere lo stato nazionale a provvedere direttamente al loro benessere.

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Poi in ogni singola democrazia quelle due grandi linee di conflitto si sovrappongono e si combinano in modi diversi. Questo articolo è però dedicato esclusivamente al caso italiano. Anzi, è dedicato a un solo problema: se sia possibile far evolvere la situazione politica del nostro paese verso un orientamento liberaldemocratico, nel quale le semplificazioni populistiche tornino ad essere minoritarie e prevalga nei partiti maggiori un atteggiamento meno estremistico e fazioso nel conflitto politico. Solo in queste condizioni sarà possibile far passare quelle riforme della costituzione politica ed economica che possono avviare il nostro paese su una strada di maggiore civiltà e benessere.

 

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Ci sono molti ostacoli in questo percorso e qui mi limito ad accennare ad uno che mi è stato suggerito dalla lettura di un impegnativo articolo di Giorgio Tonini sul Foglio, Il partito che manca all’Italia. Trovo condivisibili non poche analisi di quell’articolo, ma una – implicita – proprio non lo è: che sia soltanto il Partito democratico a rispettare le condizioni prima indicate e a doverle rispettare in futuro. Ammetto che sia quello in cui oggi esse sono maggiormente presenti, ma finché non si formerà in Italia un grande partito liberaldemocratico di destra che le faccia proprie lo stallo italiano è destinato a durare. Tonini è in realtà ancora attratto dall’idea veltroniana di partito a vocazione maggioritaria, di cui però dà una lettura curiosa: il Partito democratico sarebbe un partito culturalmente egemone ma non maggioritario nel paese, tant’è vero che è “chiamato a governare” anche quando non vince o perde malamente le elezioni, anche quando non riesce a superate la modesta asticella del 20 per cento. Questa è però una situazione che preannuncia future sconfitte, perché la sua presenza al governo può essere facilmente descritta come frutto di manovre antidemocratiche, che non rispettano la volontà degli elettori.

 

Ed “egemonia senza consenso” è un ossimoro che farebbe rivoltare nella tomba persino Antonio Gramsci, certo non un campione di democrazia liberale: in una democrazia liberale egemonia vuol dire consenso elettorale molto ampio, se non maggioritario. Anche il riferimento al creatore dell’espressione “vocazione maggioritaria”, Mitterrand, è improprio: Mitterrand semplicemente aspirava ad un maggior consenso elettorale del PS (nel contesto delle leggi elettorali maggioritarie francesi) nei confronti del centrodestra – un centrodestra liberaldemocratico di cui non metteva in dubbio la legittimazione a governare – che sino ad allora ne aveva goduto. Se si riduce l’area liberaldemocratica potenziale ad un partito solo, e a un partito percepito come di sinistra, il suo compito nell’affrontare la sfida populista diventa improbo: gli elettori di centrodestra, anche i più moderati e sensibili ai principi della liberaldemocrazia, ma che proprio non si fidano della sinistra, saranno confusi da una contraddizione tra le due linee di cui dicevo prima: perché allora non seguire la corrente principale della destra, anche se dominata dai populisti?

 

E altrettanto confusi saranno gli elettori di centrosinistra: la via d’uscita che Tonini propone – sulla base di un’analogia con una società, un’epoca e un sistema politico imparagonabili con quelli del nostro paese (gli Stati Uniti) – non regge: che cosa vuol dire che non ci può essere pensiero democratico “che non contenga in sé una dose ragionevole e controllata di populismo”? Si tratta della via tentata da Renzi? Una via che non ha scalfito la destra e ha creato confusione e conflitto nel Partito democratico, in buona parte convinto (erroneamente, a mio giudizio) che Renzi stesse svendendo i valori di fondo della sinistra. E poi che cosa vuol dire stare dalla parte dei ceti popolari e più svantaggiati? A parte il fatto che questo è proclamato come obiettivo sia a destra che a sinistra, può voler dire due cose: accedere alle domande pericolose e irrealistiche dei populisti o temperarle sulla base di ciò che è possibile proporsi restando in un contesto realistico e liberaldemocratico.

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Ma proprio questo è il punto: è ben possibile che Il Partito democratico non abbia fatto quanto era necessario per immettere nel suo messaggio una dose “ragionevole e controllata” di populismo, qualsiasi cosa voglia dire questa espressione. La domanda però è: sarebbe bastato a superare l’asticella del 20% di fronte alla concorrenza agguerrita delle destre e dei populismi? Di fronte alla profondità e al radicamento della divisione tra destra e sinistra? Ciò che dice Tonini vale in realtà sia per la destra che per la sinistra. Un partito liberaldemocratico, di destra o sinistra che sia, deve tenere sotto controllo le pulsioni populistiche che inevitabilmente allignano tra gli elettori in momenti di crisi economico-sociale e suscitano una reazione di rigetto nei confronti dei partiti al governo, se questi cercano di affrontare la crisi in modo “ragionevole”, e di conseguenza con effetti immediati deboli quando la crisi ha radici profonde.

 

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Ma ognuno deve lavorare nel suo campo ideologico per temperare spinte irrealistiche ed estremistiche che in esso nascono, senza però negare legittimità alle altre componenti dello spettro liberaldemocratico. Anzi, favorendo per quanto è possibile contatti e scambio di idee e competenze al fine definire insieme alcune strategie di fondo che consentano di affrontare realisticamente i molti problemi che affliggono l’assetto costituzionale, l’economia e la società italiane. Solo questa divisione del lavoro può avere qualche effetto sul contenimento dell’estremismo e del populismo: se consentiamo a scelte ideologico-identitarie di interferire in una battaglia contro il populismo che dovrebbe essere comune, temo che questa sia perduta in partenza. E’ vero che la destra emersa in Italia alla fine della Prima Repubblica, dopo un brevissimo momento “liberale”, ha assai presto rivelato caratteri che è difficile ascrivere a quella “dose moderata e ragionevole di populismo” che Tonini trova accettabile, anzi auspicabile, nel Pd (…e in ogni partito liberaldemocratico, aggiungo io).

 

E’ vero però che Forza Italia di oggi, se giudicata alla luce degli orientamenti politici che esprime, è un partito non diverso da quelli della destra liberaldemocratica europea. E che, sia nella Lega, sia in Fratelli d’Italia, stanno manifestandosi forze critiche nei confronti della linea populistica sinora seguita dai loro leader. E’ poi possibile che queste forze critiche si irrobustiscano mano a mano che ci avvicineremo alla scadenza elettorale del 2023: mi rifiuto di credere che i ceti produttivi del Nord possano seguire un governo guidato da Salvini e Meloni, se questo mette in pericolo i legami economici cui si sono assuefatti in sede europea. Insomma, una incipiente “romanizzazione dei barbari” è già percepibile (Per quanto riguarda il M5S il compito di “romanizzarlo” se l’è assunto il Partito democratico, facendo leva sui loro stessi interessi, e ne pagherà le conseguenze).

 

C’è di più. L’area liberaldemocratica potenziale è più ampia della somma di destra e sinistra e ad essa appartengono anche piccoli partiti (di centro?) già esistenti o altri che potrebbero affermarsi in seguito. E’ però improbabile che questi possano aspirare ad una rappresentanza parlamentare se non si uniscono sotto una leadership credibile in un unico partito: se restano divisi neppure una legge iper-proporzionale, neppure uno sbarramento abbassato al 2%, li porterebbe tutti in parlamento. E’ un problema difficile, non solo per l’operare dell’aureo principio del “gallo nel pollaio” (meglio essere primo in un pollaio piccolo che secondo in uno grande), ma soprattutto perché alcuni leader di questi piccoli partiti centristi sono personalità forti e note, forse la principale fonte di attrazione dei pochi voti che il loro partito riceverebbe. Un rientro di Renzi e Calenda nel Pd mi sembra improbabile (meno improbabile per Leu, se il Pd vuole darsi una connotazione più radicale e di sinistra per attirare voti in uscita dai 5 stelle). Ma forse potrebbero dar vita ad una “Federazione di Centro” guidata dalla triade carismatica Renzi, Calenda, Bonino. Se ben costruita potrebbe anche superare la soglia del 5%, la dispersione dei voti sarebbe evitata e la presenza di una agguerrita pattuglia di sicura fede liberaldemocratica sarebbe garantita. Ma questa è fantapolitica e ritorno al tema principale di questo articolo.

 

Mi perdonerà l’amico Tonini se l’ho usato come sparring partner, forse distorcendo quanto intendeva sostenere. Il problema più grave del sistema politico italiano è la debolezza di un partito liberaldemocratico di destra, che ha tra le sue conseguenze anche il fraintendimento del concetto di vocazione maggioritaria.  L’aspirazione a rappresentare una quota maggioritaria degli elettori ce l’hanno tutti i partiti che vogliono governare, di destra o di sinistra, liberaldemocratici o populisti: questo e non altro vuol dire vocazione maggioritaria. Affinché questa aspirazione/vocazione sia soddisfatta, affinché un partito o una coalizione di partiti possa governare una democrazia avanzata nell’attuale contesto europeo, è però importante che partito o coalizione si attengano ai principi economici e politici di una democrazia liberale (o quantomeno ai suoi principi economici: si veda il caso di Ungheria e Polonia, accettate obtorto collo nell’Unione Europea nonostante palesi violazioni dei principi politici di una democrazia liberale rigorosamente intesa).

 

Purtroppo, in Italia, la destra è forte, ma la sua componente liberaldemocratica è debole. Questo spiega perché, salvo la breve parentesi giallo-verde, il Partito democratico negli ultimi undici anni sia sempre stato coinvolto al governo nonostante il limitato consenso elettorale che raccoglieva. Non è una cosa di cui rallegrarsi: non vuol dire affatto che solo un partito di sinistra è idoneo a governare, ma che manca il suo antagonista naturale, un forte partito liberaldemocratico di destra, che è invece presente in gran parte dei sistemi politici di democrazia avanzata. E temo che, se questa anomalia non sarà superata, non riusciremo mai a metter mano ad alcuna riforma seria della costituzione economica e politica del nostro paese. Le grandi riforme si fanno solo se, sottostante, c’è un consenso molto ampio. Insomma, “Il partito che manca all’Italia” (è il titolo dell’articolo di Tonini) non è un partito di sinistra, un Pd che “contenga una dose ragionevole e controllata di populismo”. E’ un partito liberaldemocratico di destra.

 

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