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l'inchiesta

Tutte le manine da seguire per scoprire dove finiranno i soldi del Recovery plan

Ci sono il fedelissimo di Amendola e gli "allievi" di Padoan. C'è l'ideatore di Industria 4.0 e uno dei "pezzi di m..." del Mef odiato dai grillini. Ecco chi lavora al Piano nazionale di ripresa

Valerio Valentini

Nomi, volti e incarichi di chi lavora nei ministeri e a Palazzo Chigi per preparare i progetti che l'Europa dovrebbe finanziarci. Le tensioni al Mise, dove il fedelissimo di Di Maio latita. Il danese alla corte di Conte. Il deep state che funziona

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Certe volte pure la ricorrenza dei nomi, in questa piccola repubblica fondata sull’“Ah Fra’, che te serve?” che è il centro di Roma, serve a descrivere una diversa mappa se del potere, di quel potere che non si ostenta, ma anzi lo si esercita proprio nella misura in cui lo si dissimula, nella trafila quotidiana degli incontri riservati, dei beneplaciti concessi o negati. E così, in queste settimane in cui tutta la politica, e il mondo vario e variegato che gli ruota intorno, sono concentrati sui lavori preparatori per il Recovery plan, tra  i corridoi dei ministeri rimbalza sempre la stessa frase, che ondeggia a seconda dei casi dall’esortativo al perentorio: “Senti Fabrizio”, “L’hai chiesto a Fabrizio?”, “Vedi che dice Fabrizio”. “Il mio Fabrizio”, ci tiene a rivendicare Enzo Amendola, il ministro degli Affari europei che il suo capo di gabinetto, quel Fabrizio che di cognome fa Lucentini, se lo coccola e se lo rimira come una perla  da proteggere dai raggi corrosivi della luce acida dei retroscenisti.

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Certe volte pure la ricorrenza dei nomi, in questa piccola repubblica fondata sull’“Ah Fra’, che te serve?” che è il centro di Roma, serve a descrivere una diversa mappa se del potere, di quel potere che non si ostenta, ma anzi lo si esercita proprio nella misura in cui lo si dissimula, nella trafila quotidiana degli incontri riservati, dei beneplaciti concessi o negati. E così, in queste settimane in cui tutta la politica, e il mondo vario e variegato che gli ruota intorno, sono concentrati sui lavori preparatori per il Recovery plan, tra  i corridoi dei ministeri rimbalza sempre la stessa frase, che ondeggia a seconda dei casi dall’esortativo al perentorio: “Senti Fabrizio”, “L’hai chiesto a Fabrizio?”, “Vedi che dice Fabrizio”. “Il mio Fabrizio”, ci tiene a rivendicare Enzo Amendola, il ministro degli Affari europei che il suo capo di gabinetto, quel Fabrizio che di cognome fa Lucentini, se lo coccola e se lo rimira come una perla  da proteggere dai raggi corrosivi della luce acida dei retroscenisti.

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E lui, Lucentini, cinquantatreenne romano, nell’ombra ha imparato a muoversi agilmente: non a caso ha scelto la carriera diplomatica, dopo una laurea in Scienze politiche conseguita alla Sapienza non senza lasciarsi attrarre, e un poco coinvolgere, dai prodromi della Pantera. I ministeri comincia a bazzicarli tre anni più tardi, vagliando i documenti dell’allora capo della Farnesina Lamberto Dini. Di lì parte in un giro per il mondo che lo porterà prima a Tokyo e poi a Parigi, finché Giampiero Massolo non lo arruola nella segreteria generale del Maeci. Poi, nel 2012, va a Bruxelles, nell’ufficio della rappresentanza permanente dell’Italia. E lì resta fino all’estate del 2016: quando Carlo Calenda, scelto da Matteo Renzi come ambasciatore presso l’Unione europea e poi subito costretto a tornare a Roma tra lo scorno delle feluche, in quelle poche settimane in veste da diplomatico fa in tempo ad apprezzare le qualità di Lucentini, e se lo porta con sé al Mise, dove lo nomina direttore generale per la promozione del Made in Italy. E insomma è un po’ fatale che ora Lucentini, sfruttando il combinato disposto delle sue doti di grand commis che sa di cosa parla quando parla d’investimenti e che ben conosce le liturgie della diplomazia brussellese, si ritrovi a sovraintendere ai lavori del Ctv, il Comitato tecnico che valuta i progetti da finanziare col Recovery. E quanto l’impegno lo triboli se ne sono accorti i suoi amici del Quartiere africano che, abituati a ironizzare sul suo zelo salutista di runner , se lo sono visti tornare a fumare quelle sigarette che aveva abbandonato da anni. “Colpa del Pnrr”, dice lui, alludendo al Piano di riforme che l’Europa dovrà vagliare, e su cui lui delle sue giornate spende da mesi la miglior parte. Lo fa, tra l’altro, conducendo lunghe riunioni, per lo più in videoconferenza, dove lui coordina le fatiche di altri suoi compagni di travaglio.

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Russo e Rivera: i controllori del Mef
Tra i quali si fa spesso notare, per quella cautela sui conti così tipica di chi i conti è costretto a farli tornare, Raffaele Russo, il vice capo di gabinetto del Mef di cui Roberto Gualtieri molto si fida, dando così consistenza alle indiscrezioni che vorrebbero imminente la sua promozione nel posto ora ricoperto da Pier Luigi Carbone, voluto in epoca di grilloleghismo da Giovanni Tria. Napoletano di nascita e di fede calcistica, Russo è uno dei più apprezzati esperti di fisco a Via XX Settembre: competenze acquisite nei lunghi anni di lavoro all’Ocse. Dove a un certo punto viene notato da un suo connazionale, capo economista all’istituto di Parigi. Si chiama Pier Carlo Padoan, e quando viene scelto da Renzi come ministro dell’Economia, chiede a Russo di seguirlo. Grosso modo lo stesso itinerario percorso anche da Federico Giammusso, pure lui convinto da Padoan a traslocare dall’Ocse al Mef nel 2014, esperto di regolamenti e vincoli europei, che per questo viene spesso consultato da chi, con italica furbizia, è ansioso di sapere se quel suo progetto possa in qualche modo passare il vaglio degli austeri tecnocrati di Ursula von der Leyen.

 

 

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Sempre che il tutto non venga prima bloccato dall’occhio scrupoloso di Alessandro Rivera, che tra i corridoi di Via XX Settembre c’ha trascorso poco meno della metà dei suoi quarantotto anni di vita vissuta a occuparsi di banche, fino a ricevere da Tria la nomina a direttore generale del Tesoro, dopo una tensione durata per mesi coi maggiorenti del M5s che a Rivera imputavano di aver gestito il salvataggio delle venete, che nel mondo alla rovescia del SacroBlog è evidentemente una colpa da espiare. E insomma si capisce perché il suo nome si aggiunse alla lunga lista di quei “pezzi di merda del Mef” contro cui i grillini sono impegnati in una guerra permanente condotta a colpi di soffiate ai giornali e tentativi di registrarne conversazioni riservate, eroiche bassezze, che Rivera deve forse guardare col distacco di chi di ministri, e viceministre e sottosegretari, ne ha visti passare a decine (iniziò con Vincenzo Visco, e c’era ancora la lira). Autorevole fino ai limiti dell’autoritarismo, viene spesso descritto come  “abituato a fare sempre come dice lui”. E forse, semmai, a renderlo un po’ ombroso concorre la sua origine montanara, discendente com’è di una nobile famiglia aquilana che vanta remoti capostipiti condottieri fedeli a Federico II che fondarono uno dei borghi originari della città, avi più recenti che sono stati intellettuali e benefattori di credo antifascista e hanno fondato l’Università locale e rampolli recentissimi di fede progressista che hanno fondato un buon rapporto col Pd.

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Gli ambasciatori di De Micheli e Azzolina

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E se questi sono quelli che dovrebbero concedere, e che per lo più tendono a farlo con meditata oculatezza, nelle riunioni del Ctv c’è poi chi gioca il ruolo opposto, e cioè quello di chi chiede, esige, vuole,  e pure fortissimamente talora, perché a loro volta i tecnici devono poi rendere conto ai loro ministri, i quali al titolo sul giornale e alla gloria che deriva dal veder crescere il loro bottino a disposizione ci tengono eccome. E ad esempio non dev’essere stato facile, per Giuseppe Catalano, spiegare alla sua Paola De Micheli come mai, dei circa settanta che ne aveva preventivati, il Mit se ne vedrà ricevere appena una ventina, di miliardi.

Laureato in scienze politiche in un dicastero di ingegneri e di geometri, Catalano, da tutti chiamato Pinuccio, nato a San Severo, Foggia, nel 1962, è considerato da tutti “quello che ha la visione”. E non nel senso dell’allucinazione mistica, beninteso: è lui insomma che, da capo della struttura tecnica di missione del Mit, ha il compito di pianificare, ideare, coordinare il lavoro delle squadre di tecnici e consulenti di cui spesso il ministero si avvale per definire le priorità di intervento. A Porta Pia ci è arrivato nel 2006, quando Romano Prodi, impegnato com’era a trovare la formula della stabilità in un governo di larghissima coalizione, concesse i Trasporti all’urbanista Alessandro Bianchi, organico al partito dei comunisti italiani di Cossutta e Diliberto. E, dopo una breve parentesi al Mef e dopo l’esilio forzoso nell’annus horribilis del toninellismo, è stato tra i pochissimi degli uomini di fiducia dell’ex ministro Delrio a venire richiamato dalla De Micheli. 

 

Anche all’Istruzione, comunque, sanno bene che dei 13 progetti presentati, sarebbe già un successo vedersene finanziati tre o quattro. Lucia Azzolina si affida a Luigi Fiorentino, che la sua carriera di civil servant l’ha iniziata al Mef nel ’96: allievo della scuola di Sabino Cassese,  prima di essere capo di gabinetto della ministra grillina lo è stato di Alessandro Profumo e di Maria Chiara Carrozza, e insomma la macchina di Viale Trastevere la conosce come pochi altri, oltre ad avere una certa frequentazione di quel Palazzo Chigi di cui è stato vice segretario generale tra il 2015 e il 2016. Ad aiutarlo c’è anche Gianluca Grandi, ambasciatore di lungo corso e consigliere diplomatico della Azzolina.

 

"Ma perché il segertario generale non si trova?". Le tensioni al Mise

Stefano Patuanelli, invece, il mandato di seguire i lavori preparatori lo ha dati al gallipolino Paolo Casalino, interista sfegatato, funzionario di lungo corso che s’è fatto le ossa tra Parigi e Bruxelles, dove per dieci anni è stato rappresentante degli interessi della regione Puglia, prima di essere arruolato dal Mise a maggio 2019, come responsabile dei rapporti con l’Unione europea. Se Casalino gestisce gli aspetti diplomatici, quelli di consulenza industriale li cura invece Elio Catania, uno degli ideatori di quel progetto Industria 4.0 che col Recovery si vuole rilanciare, ed ex  presidente di Confindustria digitale. Assai meno Patuanelli potrà contare sul supporto di colui che pure, in teoria, più di tutti dovrebbe sovrintendere ai lavori di Via Veneto: e cioè Salvatore Barca, ex consigliere giuridico di Luigi Di Maio che poi il capo grillino, diventato ministro, ha promosso segretario generale del Mise. E quanto sia ligio ai suoi doveri ministeriali, Barca, lo ha dimostrato il 24 settembre, quando la scoperta di un dipendente positivo al Covid costringeva all’evacuazione di Palazzo Piacentini e nessuno sapeva dove fosse finito il segretario generale. Il quale, contattato intorno alle dieci di mattina dai funzionari del Mise in agitazione per la sua assenza (“Non si sarà mica sentito male?”), li tranquillizzava rispondendo candidamente che potessero stare tranquilli, lì al ministero, perché lui ancora non era arrivato a lavoro.
 

Un danese alla corte di Conte
Su tutto, infine, c’è la supervisione di Palazzo Chigi. Il delegato di Giuseppe Conte è Riccardo Cristadoro, economista fattosi notare al centro studi di Banca d’Italia da dove il presidente del Consiglio lo ha chiamato nel dicembre scorso, quando  Piero Cipollone, in un incrocio di combinazioni, lasciava sguarnito il ruolo di consigliere economico della presidenza del Consiglio per andare a Palazzo Koch come vicedirettore generale. E’ Cristadoro a rappresentare Conte, nella squadra del Ctv, dove non mancano neppure consulenze extranazionali. Perché Conte tende a fidarsi molto di un danese tutto d’un pezzo, Lars Anwandter, economista specializzato nei processi finanziari legati all’acqua, che l’Italia ha imparato a conoscerla negli anni trascorsi alla Banca europea degli investimenti, dove gestiva  i finanziamenti al nostro paese, finché il premier, a febbraio, non ha deciso di nominarlo a capo della struttura di missione Investitalia. E non si sa mai che un po’ di rigore nordico non aiuti, nelle trattative con Bruxelles. 

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