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tu vuo' fa' l'americano

Le capriole di Di Maio davanti a Pompeo per rinnegare l'amore cinese

Stavolta, almeno, ha evitato di chiamarlo "mister Ross". Ma agli occhi del segretario di stato Usa, il ministro degli Esteri resta l'artefice della Via della Seta

Valerio Valentini

Davanti al segretario di stato Usa, il ministro degli Esteri fa professione di fede atlantista, provando a smarcarsi dall'ombra di Conte. Ma su Navalny e Guaidó gli imbarazzi sono evidenti.  Il nodo del 5G e le promesse americane sulla Libia

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Se non altro, stavolta ha evitato di chiamarlo “mister Ross”, come fece l’ottobre scorso. Quando, ricevendolo a Villa Madama, Luigi Di Maio riuscì infatti a dargli un cognome che non era il suo, al segretario di stato americano. L’unica consolazione, all’epoca, fu che anche nel cerimoniale di Palazzo Chigi, in quelle stesse ore, Giuseppe Conte fu coinvolto malgré soi in una brutta figura, con la giornalista delle Iene che sgattaiolava oltre il cordone di sicurezza a offrire uno spicchio di Grana Padano al braccio destro di Donald Trump, con conseguente imbarazzo generale. Coincidenze, certo, che però a loro modo riuscivano a testimoniare di una difficoltà di relazioni tra l’intellighenzia grillina e la Casa Bianca che va avanti sin dall’inizio della legislatura. E però, siccome ormai il Conte II è un lungo, faticoso sforzo di rimediare ai danni del Conte I, dopo quota 100 e il Reddito di cittadinanza, dopo l’antieuropeismo e i “decreti sicurezza”, anche i rapporti con gli Usa vanno riequilibrati. E allora si capisce lo zelo con cui, ieri, Conte e Di Maio hanno preparato l’incontro con Mike Pompeo, ben sapendo che il grande capo di Foggy Bottom, sotto la mascherina a stelle e strisce, avrebbe utilizzato con la diplomazia italiana quegli stessi toni rudi che tanta irritazione hanno provocato in Vaticano. Del resto Conte, l’“amico Giuseppi”, sa bene che tanto della sua riconferma a Chigi la deve alla benedizione giunta da Washington, e certo non disdegnerebbe di mostrare la sua riconoscenza. Sennonché quanto gli chiede Pompeo – cioè un sostanziale bando di Huawei sul 5G, sul modello di quanto fatto da Boris Johnson a Londra – va oltre ciò che l’Italia, dovendo e volendo agire in sintonia coi partner europei e forte di una legislazione sul golden power tra le più avanzate del continente, può concedere.

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Se non altro, stavolta ha evitato di chiamarlo “mister Ross”, come fece l’ottobre scorso. Quando, ricevendolo a Villa Madama, Luigi Di Maio riuscì infatti a dargli un cognome che non era il suo, al segretario di stato americano. L’unica consolazione, all’epoca, fu che anche nel cerimoniale di Palazzo Chigi, in quelle stesse ore, Giuseppe Conte fu coinvolto malgré soi in una brutta figura, con la giornalista delle Iene che sgattaiolava oltre il cordone di sicurezza a offrire uno spicchio di Grana Padano al braccio destro di Donald Trump, con conseguente imbarazzo generale. Coincidenze, certo, che però a loro modo riuscivano a testimoniare di una difficoltà di relazioni tra l’intellighenzia grillina e la Casa Bianca che va avanti sin dall’inizio della legislatura. E però, siccome ormai il Conte II è un lungo, faticoso sforzo di rimediare ai danni del Conte I, dopo quota 100 e il Reddito di cittadinanza, dopo l’antieuropeismo e i “decreti sicurezza”, anche i rapporti con gli Usa vanno riequilibrati. E allora si capisce lo zelo con cui, ieri, Conte e Di Maio hanno preparato l’incontro con Mike Pompeo, ben sapendo che il grande capo di Foggy Bottom, sotto la mascherina a stelle e strisce, avrebbe utilizzato con la diplomazia italiana quegli stessi toni rudi che tanta irritazione hanno provocato in Vaticano. Del resto Conte, l’“amico Giuseppi”, sa bene che tanto della sua riconferma a Chigi la deve alla benedizione giunta da Washington, e certo non disdegnerebbe di mostrare la sua riconoscenza. Sennonché quanto gli chiede Pompeo – cioè un sostanziale bando di Huawei sul 5G, sul modello di quanto fatto da Boris Johnson a Londra – va oltre ciò che l’Italia, dovendo e volendo agire in sintonia coi partner europei e forte di una legislazione sul golden power tra le più avanzate del continente, può concedere.

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Ed è qui che allora Di Maio s’inserisce, sgomita e tenta di accreditarsi agli occhi dell’Amministrazione Trump come il più filoatlantista, proprio lui che, agli occhi di Pompeo, l’ex capo della Cia che conduce la crociata contro Pechino, deve apparire per quel che è stato, e cioè il regista, più o meno consapevole, di quell’accordo della Via della Seta che per il governo cinese ha rappresentato il più sperticato salamelecco politico in tutto l’occidente, ben più del un semplice accordo commerciale che i grillini sono convinti di aver siglato. Di questa svolta di Di Maio, di questo tentativo di redenzione, se ne sono accorti ultimamente anche i ministri del Pd, quello della Difesa Guerini e quello degli Affari europei Amendola, atlantisti sinceri e non estemporanei che si sono ritrovati di fronte, nei vertici più recenti, un leader grillino che, dopo un anno di stanza alla Farnesina, quasi prendeva le distanze dal suo recente passato, come a voler dire che dipendesse da lui sul 5G e su Huawei si porrebbero paletti ancora più stringenti, se non fosse insomma per Conte e per il ministro dello Sviluppo Patuanelli, cinquestelle pure lui. 

 

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E allora stavolta Di Maio, prima di iniziare il suo intervento in conferenza stampa, attende che il suo portavoce gli porga i fogli appuntati, e si attiene a quelli evitando il benché minimo scantonamento. Legge con attenzione e si esibisce in una professione di fede che pare perfino sincera, che forse avrà perfino fatto vacillare lo scetticismo di Pompeo. Che ribadiva come “i russi debbano assolutamente dare una spiegazione per l’avvelenamento di Navalny” davanti al leader di un movimento che due settimana fa si è rifiutato di votare a Bruxelles in favore di un’inchiesta internazionale sull’avvelenamento di Navalny. Che ricordava come sia “importante stare al fianco del governo legittimo di Guaidó in Venezuela” davanti a un ministro che ha chiesto all’Italia di “evitare ogni ingerenza” in Venezuela e predica neutralità tra Maduro e il suo rivale. Che conduce l’ennesima arringa contro il regime cinese davanti a chi va in affanno ogni volta che si debba dire una parola di biasimo sulla barbarie di Hong Kong e che a “Mr Ping” ha regalato la più teatrale delle passerelle in Europa non più tardi di un anno e mezzo fa, vantandosi poi di esportare in Cina tonnellate di arance

 

“Però sulla Libia c’è stata grande sintonia”, sottolineano alla Farnesina. E in effetti le parole di Pompeo sulla consapevolezza degli Usa rispetto all’impatto dell’instabilità di quel paese, le sue promesse sull’utilizzo dell’arsenale diplomatico di Washington per creare una situazione più stabile a Tripoli e dintorni, sono apparse come un rinnovato impegno americano sul fronte nordafricano. Ma dopo quattro anni di sostanziale indifferenza dell’Amministrazione Trump, e con un presidente tutto preso dalla campagna per la rielezione, difficilmente le dichiarazioni del segretario di stato si tradurranno in un sostegno fattivo. Tanto più che per garantircelo, quel sostegno, il presidente americano dovrebbe di fatto svincolarsi da Khalifa Haftar, e dunque dare un dispiacere a quegli Emirati arabi con cui ha appena stretto un accordo storico in medio oriente e che sul generale puntano assai. Insomma, meglio evitare facili illusioni e annunci trionfali. L’ultima volta che Di Maio lo ha fatto, a proposito della Libia, fu per elogiare la ripresa dei lavori dell’autostrada della pace, durante la sua visita a Tripoli e a Tobruk. Il giorno dopo, Haftar faceva rapire diciotto pescatori che navigavano su imbarcazioni italiane. Sulla loro sorte, ieri il ministro degli Esteri non ha detto niente. 

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