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Di Maio s'attacca al referendum per nascondere il tracollo del M5s

"Abbiamo un Parlamento normale", dice il ministro degli Esteri. Ma il suo partito è allo sbando, e nelle regionali è un bagno di sangue

Valerio Valentini

In sofferenza al nord, dove ottiene un terzo dei consensi di 5 anni fa. Inconsistente anche al sud, un tempo patria del grillismo. Il M5s è allo sbando. "Siamo il nuovo Udeur", dicono i seguaci di Dibba. E il Mes è la prossima crisi di nervi

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Per mezz’ora di gloria, cosa non si farebbe? Luigi Di Maio di certo ingannerrebbe un presunto amico, nonché supposto suo capo politico, uno a cui insomma dovrebbe, se non ubbidienza, quanto meno lealtà. E invece, sapendo che quella mezz’ora è l’unico osso su cui potrà gettarsi in una giornata di magra, la sola preoccupazione del ministro degli Esteri, nel pomeriggio in cui si ridefiniscono equilibri e prospettive del governo di cui fa parte, è bruciare Vito Crimi, batterlo sul tempo. E così, mentre gli italiani attendono di capire chi ha vinto e chi ha perso nelle regionali, nel M5s si discute per chi debba fare la prima dichiarazione sul taglio dei parlamentari. 

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Per mezz’ora di gloria, cosa non si farebbe? Luigi Di Maio di certo ingannerrebbe un presunto amico, nonché supposto suo capo politico, uno a cui insomma dovrebbe, se non ubbidienza, quanto meno lealtà. E invece, sapendo che quella mezz’ora è l’unico osso su cui potrà gettarsi in una giornata di magra, la sola preoccupazione del ministro degli Esteri, nel pomeriggio in cui si ridefiniscono equilibri e prospettive del governo di cui fa parte, è bruciare Vito Crimi, batterlo sul tempo. E così, mentre gli italiani attendono di capire chi ha vinto e chi ha perso nelle regionali, nel M5s si discute per chi debba fare la prima dichiarazione sul taglio dei parlamentari. 

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Spetterebbe a Crimi, ovviamente, che infatti prenota la conferenza stampa nella Sala della Lupa, a Montecitorio. E però Di Maio, che a quello scampolo di celebrità ci tiene, pochi minuti prima che il reggente inizi a parlare pubblica il suo post su Facebook. “E’ un risultato storico”, esulta, parlando di un Parlamento che “finalmente torna normale, con 345 poltrone e privilegi in meno”. Nel frattempo escono i primi dati sulle regionali, ed è un disastro. Al nord, certo: dove il M5s riduce i suoi consensi a un terzo rispetto a quelli delle regionali del 2015. Ma perfino in quel sud che Di Maio considera casa sua, è un bagno di sangue. Nella Campania che è stata culla del grillismo di governo, Valeria Ciarambino, amica d’infanzia del ministro degli Esteri, non arriva al 14 per cento; in Puglia, dove i grillini giuravano ancora alla vigilia di avere in mano sondaggi segreti che li accreditavano come possibili vincitori, Antonella Laricchia viene relegata alla marginalità del suo 10 per cento. E allora non resta che rispolverare il vecchio armamentario anti Casta, ostentare un orgoglio spompato a tal punto che i capi della comunicazione di Montecitorio si ritrovano a dover sollecitare i deputati a partecipare al sabba populista, condividere quell’unica proposta che Di Maio può gettare nel calderone della propaganda: il taglio degli stipendi di deputati e senatori.

 

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E le regionali? “Oggi è una bella giornata”, dice il ministro, con l’aria di chi non vuole rovinarsela coi brutti pensieri. “E domani? Domani chissà”. Ma di certo c’è che la responsabilità del disastro elettorale nessuno vuole assumersela. Paola Taverna si sottrae. La corte che segue Di Maio, da Laura Castelli a Massimo Castaldo, si rintana nello studio del questore Ciccio D’Uva, a mangiare tramezzini e declinare ogni commento. “Chi sta con noi cresce sempre, si vede che portiamo bene”, si dicono tra loro, osservando che dopo aver rivitalizzato la Lega, ora garantiscono anche una cura ricostituente al Pd. Di Maio si limita a dire che “le regionali potevano essere organizzate con un’altra strategia”. Una legnata sui denti dell’ammaccato Crimi, che ormai neppure più protesta per le botte che riceve.

 

Il tutto con lo spettro del caos, di un Movimento votato a una ipercinetica inconcludenza. Gli stati generali tutti fanno mostra di volerli subito, ma nessuno sembra sapere davvero cosa sono e come verranno gestiti. Ed è così che Ignazio Corrao, dopo essersi confrontato col suo mentore Alessandro Di Battista, dice che “ormai siamo il nuovo Udeur”, e l’unica possibilità di svolta “starebbe in un vero turnover: Di Maio e Crimi, visto che tra due anni dovranno tornare ai loro lavori, farebbero bene a farsi da parte, visti i disastri che hanno causato”. Mezz’ora di gloria, d’altronde, non basta a rimettere in piedi un partito che solo negando se stesso, riesce a sopravvivere. Il prossimo appuntamento sarà il Mes. E un ministro grillino, interpellato sul tema, già mette le mani avanti: “In fondo, abbiamo ingoiato di ben peggio”. 

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