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esercizio di cautela

Così Conte prepara la sua difesa sui rapporti tra l'Italia e la Cina

Valerio Valentini

Il premier sarà audito martedì al Copasir. Ma è inutile aspettarsi strappi con Pechino. Il nodo 5G e i rapporti con gli Stati Uniti

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Roma. Chi s’aspettava un atto di contrizione, o quantomeno un accenno di ravvedimento, resterà deluso. I rapporti con la Cina non vanno compromessi, le buone relazioni diplomatiche che Roma e Pechino hanno intessuto in questi ultimi anni non potranno certo essere messe in discussione per via di una vicenda opaca di dossieraggio ad opera di un’azienda privata i cui interessi s’intrecciano chissà fino a che punto con quelli del governo di Xi Jinping. Sarà insomma un esercizio di cautela, quello in cui Giuseppe Conte si produrrà martedì mattina: quando, col risultato incerto delle regionali ancora da metabolizzare, e le imprevedibili ripercussioni politiche che ne seguiranno ancora da capire fino in fondo, si recherà a Palazzo San Macuto per essere audito dal Copasir. E nel rispondere alle domande che gli verranno poste dai membri del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, il premier si atterrà in sostanza alle indicazioni contenute nelle informative che il Dis, il dipartimento dell’intelligence guidato da quel Gennaro Vecchione che del fu “avvocato del popolo” è consigliere fidatissimo, è andato fornendo in questi giorni: e insomma tenderà a ridimensionare, se non a sminuire, la portata reale degli Zhenhua leaks sui quasi 5.000 italiani spiati e schedati da parte dell’azienda tech di Shenzhen. Un’attività, quella di dossieraggio da parte di grandi imprese cinesi, che del resto non è nuova e su cui comunque i nostri servizi vigilano da tempo, e continueranno a farlo, d’intesa con le intelligence europee e anglosassoni. D’altronde, l’assunto legame tra Zhenhua e il regime cinese non giustifica azioni diplomatiche ufficiali nei confronti di Pechino: perché chiedere un chiarimento ufficiale, o addirittura convocare l’ambasciatore, significherebbe convalidare quel che per ora è ancora un sospetto, e insomma accusare chiaramente il governo di Xi. Né mancherà di segnalare, Conte, che nessuno degli altri paesi occidentali coinvolti nel caso ha finora adottato azioni men che prudenti, al riguardo.

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Roma. Chi s’aspettava un atto di contrizione, o quantomeno un accenno di ravvedimento, resterà deluso. I rapporti con la Cina non vanno compromessi, le buone relazioni diplomatiche che Roma e Pechino hanno intessuto in questi ultimi anni non potranno certo essere messe in discussione per via di una vicenda opaca di dossieraggio ad opera di un’azienda privata i cui interessi s’intrecciano chissà fino a che punto con quelli del governo di Xi Jinping. Sarà insomma un esercizio di cautela, quello in cui Giuseppe Conte si produrrà martedì mattina: quando, col risultato incerto delle regionali ancora da metabolizzare, e le imprevedibili ripercussioni politiche che ne seguiranno ancora da capire fino in fondo, si recherà a Palazzo San Macuto per essere audito dal Copasir. E nel rispondere alle domande che gli verranno poste dai membri del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, il premier si atterrà in sostanza alle indicazioni contenute nelle informative che il Dis, il dipartimento dell’intelligence guidato da quel Gennaro Vecchione che del fu “avvocato del popolo” è consigliere fidatissimo, è andato fornendo in questi giorni: e insomma tenderà a ridimensionare, se non a sminuire, la portata reale degli Zhenhua leaks sui quasi 5.000 italiani spiati e schedati da parte dell’azienda tech di Shenzhen. Un’attività, quella di dossieraggio da parte di grandi imprese cinesi, che del resto non è nuova e su cui comunque i nostri servizi vigilano da tempo, e continueranno a farlo, d’intesa con le intelligence europee e anglosassoni. D’altronde, l’assunto legame tra Zhenhua e il regime cinese non giustifica azioni diplomatiche ufficiali nei confronti di Pechino: perché chiedere un chiarimento ufficiale, o addirittura convocare l’ambasciatore, significherebbe convalidare quel che per ora è ancora un sospetto, e insomma accusare chiaramente il governo di Xi. Né mancherà di segnalare, Conte, che nessuno degli altri paesi occidentali coinvolti nel caso ha finora adottato azioni men che prudenti, al riguardo.

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E d’altronde, il richiamo al quadro internazionale verrà fatto dal premier anche a proposito dell’altra questione che ha a lungo tribolato i rapporti tra Palazzo Chigi e Washington, e cioè il 5G. La nuova normativa rafforzata sul golden power viene considerata dai tecnici di Conte una rassicurazione sufficiente per dimostrare alla diplomazia americana che non ci sarà alcun cedimento verso le mire espansionistiche di Huawei sulle nostre reti: ulteriori restrizioni potranno essere adottate, a questo punto, solo a livello europeo, laddove Bruxelles (cioè: Merkel e Macron) dovesse adottare un indirizzo – geopolitico e normativo al contempo – in linea con quello auspicato dai falchi di Donald Trump, e seguìto finora solo dal Regno Unito. 

 

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Una difesa, quella di Conte, che si concretizzerà in una sostanziale conferma delle scelte adottate. Nessuna abiura, nessun mea culpa: ché evidentemente qualsiasi tentennamento potrebbe essere esiziale, per il premier, nella morsa in cui si trova. Perché, sul terreno della diplomazia e dell’intelligence, il capo del governo procede in sostanziale solitudine, contando su una copertura da parte del Quirinale su cui a Palazzo Chigi si fa molto affidamento. E però da un lato c’è il Pd, che insiste nel reclamare a sé l’autorità delegata sui Servizi, ovvero quel controllo diretto e formale sull’intelligence che Conte ha deciso di tenere per sé, e nulla sembra capace di farlo ricredere: neppure le contestazioni che gli verranno fatte, dentro al Copasir e non solo, per aver troppo spesso lasciato che a sbrigare le incombenze legate a questo delicato incarico fosse il suo capo di gabinetto, Alessandro Goracci, come se insomma – per dirla con un esponente di governo dem – “la delega fosse stata delegata”.

 

E sul fronte opposto c’è Luigi Di Maio: il quale, dopo essersi gioiosamente intestato l’azzardo della Via della Seta, tende ora a mostrarsi come convintissimo soldato dell’atlantismo, e in quest’opera di riabilitazione cerca spesso – con trame più o meno raffinate – di additare in Conte il responsabile della mancata correzione di rotta da parte del governo, dal 5G in giù. Perché in effetti le tensioni diplomatiche con gli Usa restano forti, essendo l’Italia considerata dagli americani come la possibile linea di faglia di una nuova cortina di ferro, il ventre molle dell’espansionismo cinese in Italia. Non a caso nel prossimo rapporto che il Copasir pubblicherà a inizio ottobre verrà evidenziato come il colonialismo finanziario di Pechino passi anche per scalate e infiltrazioni bancarie, nonché dall’arrembaggio ostile sulle società che gestiscono i porti italiani. Su quello di Taranto, in particolare, martedì al Copasir ci sarà di che discutere. A prescindere che le urne, in Puglia, sorridano a Michele Emiliano o a Raffaele Fitto.

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