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L’e-voting di Casaleggio e la partita aperta della democrazia digitale

Fortunato Musella

Il passaggio da fake news a fake democracy è molto breve

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La democrazia rappresentativa è in crisi, o forse in via di rinnovamento. Scavata da decennali trend di sfiducia dei cittadini, che hanno alimentato livelli crescenti di disaffezione e astensionismo. E sotto l’impatto dell’ondata populista che contrappone il popolo al Palazzo, tacciato di produrre risultati insoddisfacenti, o peggio di coltivare gli interessi di pochi. Tuttavia, sono in molti a pensare che viviamo in una fase transitoria, che ci porta a passo spedito verso nuove forme di organizzazione politica. Che speriamo di poter ancora definire, in qualche modo, democratiche. Rispetto a questi processi sono le nuove tecnologie a interpretare il ruolo di motore del cambiamento, secondo un doppio copione: strumento di rivitalizzazione delle vecchie procedure di rappresentanza, finiscono per suggerirne il superamento. Si possono leggere con questa doppia chiave di lettura la tensione all’interno del M5s tra gli eletti in Parlamento e l’Associazione Rousseau e il recente annuncio di Davide Casaleggio dell’elaborazione di un sistema di e-voting che, con tecnica mutuata dalle criptovalute, si candida a procedura elettorale del futuro. Il sistema di voto, chiamato “Terminus”, è stato presentato qualche settimana fa a una conferenza internazionale con un lavoro scritto dal presidente dell’Associazione Rousseau insieme ad alcuni ricercatori.

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La democrazia rappresentativa è in crisi, o forse in via di rinnovamento. Scavata da decennali trend di sfiducia dei cittadini, che hanno alimentato livelli crescenti di disaffezione e astensionismo. E sotto l’impatto dell’ondata populista che contrappone il popolo al Palazzo, tacciato di produrre risultati insoddisfacenti, o peggio di coltivare gli interessi di pochi. Tuttavia, sono in molti a pensare che viviamo in una fase transitoria, che ci porta a passo spedito verso nuove forme di organizzazione politica. Che speriamo di poter ancora definire, in qualche modo, democratiche. Rispetto a questi processi sono le nuove tecnologie a interpretare il ruolo di motore del cambiamento, secondo un doppio copione: strumento di rivitalizzazione delle vecchie procedure di rappresentanza, finiscono per suggerirne il superamento. Si possono leggere con questa doppia chiave di lettura la tensione all’interno del M5s tra gli eletti in Parlamento e l’Associazione Rousseau e il recente annuncio di Davide Casaleggio dell’elaborazione di un sistema di e-voting che, con tecnica mutuata dalle criptovalute, si candida a procedura elettorale del futuro. Il sistema di voto, chiamato “Terminus”, è stato presentato qualche settimana fa a una conferenza internazionale con un lavoro scritto dal presidente dell’Associazione Rousseau insieme ad alcuni ricercatori.

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Dal punto di vista procedurale, il nuovo sistema di voto si inserisce in una ricca casistica internazionale che a partire dagli anni Novanta si è accumulata a diverse latitudini. Le tecniche di votazione elettronica non hanno in genere presentato un buon bilancio, e anzi hanno spinto ad alcuni clamorosi dietrofront rispetto al loro impiego per le consultazioni di rilevanza nazionale. Non consentono, infatti, di essere matematicamente sicuri delle loro performance, soprattutto in termini di garanzia di anonimato, e, ben più grave, di non falsificazione del voto: un rischio che le democrazie non possono correre per la scelta dei propri governanti. Ammesso che la nuova proposta dia i risultati sperati – per il momento i primi test riguardano gruppi poco numerosi di votanti – il voto elettronico porterebbe vantaggi nell’identificazione degli elettori e nella correttezza del voto. Ovviamente è da aspettarsi, in virtù della semplificazione del voto, anche un aumento (parziale) nelle percentuali dei partecipanti. E l’adozione della tecnologia blockchain potrebbe effettivamente dare vantaggi in tempi di segretezza del voto e di tutela della privacy, anche futura, del votante (anche se non nella verificabilità del voto, altro requisito delle consultazioni democratiche). Ma fin qui si tratterebbe di aggiungere vino nuovo a botti vecchie, cambierebbero i mezzi non la sostanza della nostra democrazia. Ma il paper presentato da Casaleggio & co fa pensare a ben altre applicazioni dello strumento. Ne è un indizio già il titolo del lavoro, che parla, senza timore di esagerare, di “Sistema di voto per il XXI secolo”. Anche il test – compiuto su soli 67 cittadini aventi diritto e 53 votanti effettivi – non si riferisce alla selezione dei candidati, ma a un micro-referendum da porre alla cittadinanza, relativo in particolare a cosa mangiare a pranzo. Farebbe pensare dunque alla deliberazione del cittadino, in modo immediato e diretto, su concrete scelte che lo riguardano. Facile pensare all’estensione a decisioni più importanti, che attualmente gli sono precluse: in breve a un salto dalla democrazia rappresentativa a quella digitale, che significa non solo inizio della seconda, ma anche (si badi bene) negazione della prima. Non entro nel merito delle scelte tecniche da compiersi per il moltiplicarsi delle consultazioni. Ma nella delicatezza del passaggio dalla tecnica alla politica –  e dalle pizze alle scelte per la collettività. Inizio dalla questione più mastodontica: la questione del controllo sui processi decisionali. Chi decide quali sono i quesiti da porre alla cittadinanza, quali sono i tempi e le modalità della loro somministrazione? Chi ne stabilisce l’ammissibilità, anche costituzionale? Quali sono i criteri per valutare valida una votazione – vero punto dolente dei responsi di Rousseau per i quali basta il numero di votanti pari agli abitanti di un piccolo centro cittadino per assumere decisioni importanti come la formazione di un governo? Chi controlla le procedure di voto, visto che anche quelle digitalmente rafforzate non sono esenti da manipolazioni? Sino ad arrivare al più terribile dei pericoli, vale a dire al fatto che nell’ecosistema digitale la manipolazione possa incidere sul bene più prezioso della democrazia, le informazioni disponibili al cittadino e la sua autonomia di giudizio.

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A quattro anni dagli scandali di Cambridge Analytica, non ne siamo ancora vaccinati ma sicuramente più consapevoli: il passaggio da fake news a fake democracy può essere molto breve. Su tutti questi punti, per dirla con lo storico Niall Ferguson, torna in mente la coppia senese della piazza e della torre, la lotta secolare tra dimensione orizzontale e verticale della vita politica. In breve il difficile, e mai definito, emergere delle forme democratiche da quelle autoritarie, e il loro costante pericolo di degradare nel loro opposto. Possiamo partecipare di più, ma con il pericolo di perdere i pur basilari avamposti della nostra cittadinanza. Proprio l’importanza di tali questioni non permette però di liquidare il lavoro di quanti ricercano o cerchino di implementare nel campo della democrazia digitale. L’irrompere delle nostre tecnologie è stato come uno tsunami che ha impattato sulla democrazia. Attori che ne hanno fatto da pilastro lungo il Novecento hanno iniziato a vacillare, o hanno cambiato forma e strumenti di azione. Le prime esperienze sono senza dubbio difettose, sicuramente non risolutive. Ma l’onda di maremoto non può essere ignorata. Soprattutto se si è già bagnati. E’ l’unico modo per rispondere all’antica aspirazione della democrazia: restituire al cittadino la sovranità che gli appartiene. 

 

Fortunato Musella è docente all'Università di Napoli Federico II

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