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Pasticci opachi

La guerra dei Servizi. Cosa c'è dietro al tranello del M5s contro Conte

Valerio Valentini

Le amicizie del sottosegretario Tofalo, i sospetti su Di Maio e gli interessi di Pallazzo Chigi. Così le tensioni nella nostra intelligence si riflettono sullo scontro tra il premier e il ministro degli Esteri

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Roma. Loro che la vocazione alla segretezza ce l’hanno perfino nella qualifica professionale, si ritrovano sempre più spesso spiattellati sui giornali. Dovrebbero consacrare alla riservatezza la loro esistenza, il loro discreto operare nell’ombra, tutta un’epica di anonimo trafficare dietro le quinte, e invece stanno lì, sul proscenio. Costretti da una politica che va perdendo consistenza, e dunque impone – o permette – all’intelligence di riempire i vuoti. E spinti a loro volta, in un uroboro di sgraziata decadenza istituzionale, a ingraziarsi il governante di turno, l’astro in ascesa, prima che cambi il vento e pure il governante. Se insomma Giuseppe Conte ha commesso l’imprudenza di ridefinire le regole del gioco dei nostri Servizi segreti, estendendo di fatto la durata dei mandati delle loro cariche apicali, con un emendamento precipitoso inserito in pieno agosto in un decreto che riguarda la crisi del Covid, è perché le insistenze, le pressioni, le raccomandazioni che venivano dai vertici della nostra intelligence erano insistenti e persistenti.

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Roma. Loro che la vocazione alla segretezza ce l’hanno perfino nella qualifica professionale, si ritrovano sempre più spesso spiattellati sui giornali. Dovrebbero consacrare alla riservatezza la loro esistenza, il loro discreto operare nell’ombra, tutta un’epica di anonimo trafficare dietro le quinte, e invece stanno lì, sul proscenio. Costretti da una politica che va perdendo consistenza, e dunque impone – o permette – all’intelligence di riempire i vuoti. E spinti a loro volta, in un uroboro di sgraziata decadenza istituzionale, a ingraziarsi il governante di turno, l’astro in ascesa, prima che cambi il vento e pure il governante. Se insomma Giuseppe Conte ha commesso l’imprudenza di ridefinire le regole del gioco dei nostri Servizi segreti, estendendo di fatto la durata dei mandati delle loro cariche apicali, con un emendamento precipitoso inserito in pieno agosto in un decreto che riguarda la crisi del Covid, è perché le insistenze, le pressioni, le raccomandazioni che venivano dai vertici della nostra intelligence erano insistenti e persistenti.

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Perché ai nostri 007 la legge del 2007, quella che poneva il limite di quattro anni per gli incarichi apicali del Dis, dell’Aisi e dell’Aise (i servizi di sicurezza interni ed esterni), non era mai piaciuta. Quando Matteo Renzi, nella pretesa di esaltare il primato della politica, strinse ancor più i vincoli sulla possibilità del rinnovo del mandato per i capi delle barbe finte, ci fu una mezza sollevazione. Perché, certo, quelli dei Servizi non sono, o non dovrebbero essere, uffici sottoposti allo spoils system tipico delle partecipate di stato. Un po’ perché certi dossier non possono di volta in volta passare di mano, serve continuità di vedute e di azione; e un po’ perché ai militari di quel tipo non piace dover rispondere alla diretta volontà di un governo, assecondandone i capricci e le esigenze di consenso. E infatti i periodi più operosi finiscono per essere sempre quelli in cui un esecutivo è caduto e l’altro ancora non s’è formato, quando magari il premier cambia ma i capi dei servizi no.

 

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E dunque si capisce perché in tanti a Piazza Dante abbiano sostenuto il blitz agostano di Conte, anche quelli che mal digeriscono l’effetto collaterale inevitabile, di questa operazione: perché estendere il mandato dei vertici significa, qui e ora, innanzitutto blindare il capo dell’Aisi Mario Parente, appena riconfermato dopo i suoi primi quattro anni di mandato. E questo presuppone stabilizzare il quadro dei vertici dei Servizi, e dunque rendere certa anche la prosecuzione dell’incarico di capo del Dis per Gennaro Vecchione, uomo di diretta emanazione di Conte e che il premier vuole fortissimamente conservare alla guida suprema dei nostri Servizi.

 

E se questo è lo schema, è evidente che tutti quelli che da questa cristallizzazione degli equilibri hanno poco da guadagnarci, hanno interesse a fomentare la tensione, fedeli al principio per cui, quando proprio non trovi un posto al tavolo che conta, ti conviene ribaltare il tavolo: che, nella fattispecie, significava sobillare gli animi di vari deputati del M5s e convincerli a sostenere l’emendamento con cui la loro collega Federica Dieni, esponente del Copasir, voleva rovinare i piani di Conte e stralciare la riforma dei vertici dei Servizi. D’altronde in parecchi addetti ai lavori, nel vedere che tra i più esagitati sostenitori dell’imboscata parlamentare del M5s c’era Angelo Tofalo, hanno subito intravisto alle sue spalle i movimenti di Marco Mancini, ex stimato dirigente del Sismi, poi caduto in disgrazia dopo i fattacci di Abu Omar e Telecom insieme al suo mentore, Niccolò Pollari, che ora spera in una sua piena riabilitazione, magari con una poltrona di vice direttore all’Aise. E però, vistosi precludere la strada verso la sua grande rentrée, l’unica soluzione per Mancini – che con l’attuale sottosegretario grillino alla Difesa (uno che nel 2016 incontrava a Istanbul, insieme a persone poi arrestate per traffico d’armi internazionale, il golpista libico Ghwell, che nel frattempo provava a far cadere il governo di Tripoli sostenuto dal governo italiano), ha un rapporto di lunga e intensa consuetudine, e che vanta ottime entrature anche alla Farnesina di Luigi Di Maio – sarebbe ora quella di sparigliare tutto, rimettere tutto in discussione.

 

Perché talvolta certi agenti dei Servizi inseguono l’indipendenza dalla politica, ma quando è la politica che deve nominarli, loro inseguono la politica.

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