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Un geco alla parete

Conte, le regionali fatali per i partiti e la strategia della scomparsa

Salvatore Merlo

La maledizione di Narni, gli effetti delle elezioni locali sul governo, il basso profilo come risorsa della comunicazione

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Roma. Sa sparire, Giuseppe Conte. E infatti ha imparato a destreggiarsi nell’arte del tacere, che non sempre è mutismo ma può anche rivelarsi una salvifica risorsa della comunicazione. Così, adesso, non fa campagna elettorale per le regionali, perché in realtà le teme, e mantiene a distanza di sicurezza tutti i candidati, anche quelli che lo hanno pregato in ginocchio. Raccontano infatti che l’unica concessione, quell’invito al “dialogo” rivolto a Pd e M5s, quella benedizione all’alleanza strategica, qualche settimana fa, gliel’avessero strappata (per disperazione) Dario Franceschini e Nicola Zingaretti

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Roma. Sa sparire, Giuseppe Conte. E infatti ha imparato a destreggiarsi nell’arte del tacere, che non sempre è mutismo ma può anche rivelarsi una salvifica risorsa della comunicazione. Così, adesso, non fa campagna elettorale per le regionali, perché in realtà le teme, e mantiene a distanza di sicurezza tutti i candidati, anche quelli che lo hanno pregato in ginocchio. Raccontano infatti che l’unica concessione, quell’invito al “dialogo” rivolto a Pd e M5s, quella benedizione all’alleanza strategica, qualche settimana fa, gliel’avessero strappata (per disperazione) Dario Franceschini e Nicola Zingaretti

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E certo se glielo si chiedesse – anzi, se glielo si chiede: le regionali avranno qualche effetto sul governo? – il presidente del Consiglio solleverebbe uno sguardo di cemento, perché per lui, così almeno si autorappresenta, adesso esiste solo il Recovery fund, ed è su quel piano di investimenti europei che si concentra l’interezza della sua attenzione, delle sue preoccupazioni, dei suoi pensieri e persino delle sue ambizioni: è su quei 220 miliardi da “spendere bene per il rilancio dell’Italia” che si parrà la sua nobilitate. Mica sulle elezioni regionali, quelle non lo riguardano. Ma è poi davvero così?

   

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Attorno a Nicola Zingaretti, il segretario del Pd, è già da tempo iniziata una danza di ombre, una macumba. C’è chi aspetta solo la sconfitta del centrosinistra alle elezioni – chissà: il disastroso 6 a 2 – per detronizzarlo. E i sostituti infatti sono già in fila da tempo, lo sanno tutti, schierati sulla soglia di un congresso che è praticamente già pronto, con i duellanti del prossimo giro: Stefano Bonaccini e Andrea Orlando. Eppure a nessuno sfugge che Zingaretti, le cui sofferenze vengono illuminate con l’impietoso livore che a microfoni spenti caratterizza i dirigenti del Pd, sia solo una possibile vittima collaterale, ché la caccia grossa è a un altro bersaglio, uno che ha persino più da perdere del segretario del Pd (che resterebbe in ogni caso presidente del Lazio): Giuseppe Conte, appunto. Ed è a Conte, infatti, non certo a Zingaretti, che mirano le parole esplosive, per qualcuno persino kamikaze, del presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Ed è a Conte che da tempo Matteo Renzi dedica le sue maliziose attenzioni. Ed è sempre alle scarpe di Conte che, infine, mira a infilare i piedi Luigi Di Maio, il quale, mentre fa sapere di andare “d’amore e d’accordo con Giuseppe”, nello stesso tempo ordisce fantasie velenose sotto la fronte liscia: oggi un manipolo di suoi parlamentari ha iniziato a boicottare la riforma (contiana) dei servizi segreti. Ed ecco allora che il presidente del Consiglio fa spallucce e scompare, shhh. Attraversa la strada con piedi di felpa, rimane a fil di terreno, un fosforo nomade d’occhi, un volatile zig zag. E si capisce che lo scarso interventismo, il silenzio, l’assenza, sono una scelta, un profilo che lo preserva mentre alcuni cercano di tirarlo nella contesa elettorale, “ma non mi faccio fregare”.

   

Già una volta fece l’errore di farsi fotografare, con Zingaretti, assieme al candidato alle regionali in Umbria, poi sconfitto dalla Lega. Un’immagine tuttora ricordata con lo sfortunatissimo nome di “foto di Narni”. Mai più. Non adesso. Lo diceva già Don Chisciotte dei diplomatici della sua epoca: “Nella bocca chiusa non entrano le mosche”. E allora Conte in nessun modo intende fornire appigli a quanti vorrebbero appioppargli sul groppone le elezioni regionali – “non c’è alcun parallelismo tra quel voto e il governo”, ha detto. Così, settimane fa, in Puglia, si è rifiutato di incontrare Michele Emiliano, che pure avrebbe dovuto raggiungerlo a Ceglie Messapica, piazzandosi in prima fila. Pussa via. Nemmeno a cento metri. I partiti, i loro candidati, Conte ora li tratta alla stregua dell’insalata di Chernobyl, una cosa da decontaminare come il latte e le carote, da isolare, mettere in quarantena, depositare in barili stagni sul fondo del mare. E che i venti li disperdano, li portino via, lontano da Palazzo Chigi, verso terre remote.

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