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Né menopeggismo né megliopossibilismo, il Pd è malato di immobilismo

Luciano Capone

Linea Di Maio sul lavoro, linea Bonafede sulla giustizia, linea Salvini sull’immigrazione. E’ solo l’Europa il riformismo dei dem?

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Roma. Chissà se ha ragione il responsabile economico del Pd Emanuele Felice, quando dice che “il meno peggio è un sano principio riformista” oppure Tommaso Nannicini, suo collega di partito e predecessore in epoca renziana, che sostiene che invece è “il riformismo è l’opposto: il meglio possibile”. Si tratta dello stesso concetto, il raggiungimento di un risultato concreto tenendo conto dei rapporti di forza e dei vincoli di realtà, ma con un atteggiamento psicologico-comunicativo diverso. Un po’ come il bicchiere, che qualcuno vede mezzo vuoto e qualcun altro mezzo pieno. Il punto, però, è vedere cosa c’è in questo bicchiere. E cioè con quali contenuti il Partito democratico ha riempito la nuova maggioranza, quali sono i cambiamenti al margine e i miglioramenti ottenuti attraverso l’azione di governo. Il governo Conte II è in teoria nato in netta discontinuità rispetto al Conte I, anche se il Pd non è riuscito a cambiare la figura del premier che però si è improvvisamente trasformato da frontman delle forze “sovraniste e populiste” a “punto di riferimento delle forze progressiste”. Ma nella pratica, in cosa è consistita questa svolta?

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Roma. Chissà se ha ragione il responsabile economico del Pd Emanuele Felice, quando dice che “il meno peggio è un sano principio riformista” oppure Tommaso Nannicini, suo collega di partito e predecessore in epoca renziana, che sostiene che invece è “il riformismo è l’opposto: il meglio possibile”. Si tratta dello stesso concetto, il raggiungimento di un risultato concreto tenendo conto dei rapporti di forza e dei vincoli di realtà, ma con un atteggiamento psicologico-comunicativo diverso. Un po’ come il bicchiere, che qualcuno vede mezzo vuoto e qualcun altro mezzo pieno. Il punto, però, è vedere cosa c’è in questo bicchiere. E cioè con quali contenuti il Partito democratico ha riempito la nuova maggioranza, quali sono i cambiamenti al margine e i miglioramenti ottenuti attraverso l’azione di governo. Il governo Conte II è in teoria nato in netta discontinuità rispetto al Conte I, anche se il Pd non è riuscito a cambiare la figura del premier che però si è improvvisamente trasformato da frontman delle forze “sovraniste e populiste” a “punto di riferimento delle forze progressiste”. Ma nella pratica, in cosa è consistita questa svolta?

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Il governo gialloverde è durato solo poco più di un anno, ma è stato dirompente, e si è caratterizzato per tre aspetti fondamentali: scontro con l’Unione europea; politiche sociali e del lavoro assistenzialistiche (reddito di cittadinanza e quota 100); politiche securitarie e giustizialiste (decreti sicurezza e riforma Bonafede). Cosa è cambiato con il Conte II e con l’arrivo del Pd al governo? C’è stata una svolta nella politica europea, con l’arrivo di Enzo Amendola agli Affari europei al posto di Paolo Savona e la nomina di Paolo Gentiloni a commissario agli Affari economici (e ovviamente non è poco). Persiste ancora un certo attrito con altri paesi europei, ma è normale dialettica e l’Italia non è più isolata né percepita come una minaccia per la tenuta dell’eurozona. Sul resto (infrastrutture a parte, dove il M5s ha accettato persino di sbloccare l’odiata Gronda) è cambiato poco o nulla. Sul lavoro, che dovrebbe essere il suo core business, il Pd non tocca palla: è fuori da ogni posizione che conta e Rdc e quota 100 sono stati confermati senza alcuna modifica. Le politiche attive non esistono e l’Anpal, nonostante la gestione indecente di Mimmo Parisi, ha approvato un piano industriale contro il parere delle regioni rappresentate in cda da Claudio Di Berardino, l’assessore al Lavoro della regione governata dal segretario del Pd Nicola Zingaretti.

 

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Rispetto all’altro tratto, quello giustizialista e securitario, il Pd ha ingoiato l’abolizione di fatto della prescrizione e non ha ottenuto l’abolizione né la modifica dei decreti sicurezza (anche se esiste un’intesa sulla revisione di alcuni punti). Linea Di Maio sul lavoro (prevalente anche sulla conferma del decreto dignità), linea Bonafede sulla giustizia, linea Salvini sull’immigrazione. Solo una cosa, finora, il Pd è riuscito a ottenere sul piano economico: il taglio del cuneo fiscale inserito nella legge di Bilancio. Una misura che peraltro è l’estensione a 100 euro del bonus 80 euro. In questo senso il nuovo Pd di Zingaretti non è in discontinuità neppure rispetto a quello di Renzi.

 

La spiegazione menopeggista della classe dirigente dem secondo cui questo è l’inevitabile risultato dei rapporti di forza parlamentari, il prodotto della sconfitta elettorale di Renzi, vale fino a un certo punto. Perché nel governo gialloverde anche la Lega aveva la metà dei seggi del M5s, eppure su molti temi era Salvini a dettare la linea. Ora il Pd si trova in una posizione di maggiore forza, con un M5s più debole rispetto al 2018, balcanizzato nei gruppi parlamentari, senza una leadership definita e dimezzato nei sondaggi. Eppure su molte questioni è il M5s a dettare l’agenda. Il Pd non riesce a incidere. Sembra che neppure ci provi. Succede quando l’obiettivo di tutelare il governo prevale sulla volontà di cambiare il paese. E questo non è riformismo, ma conservazione.

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