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Era destino. Dal Tav al Mes fino all'endorsement a Draghi, l’anticasta si è fatta casta

Pierangelo Buttafuoco

Tutto e il contrario di tutto fa capolino nella disarmante avventura dell’innocenza al governo. E non è per trasformismo che si arretra rispetto ai proclami ma perché così sta scritto nelle cinque stelle

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Che Luigi Di Maio possa compiacersi di Mario Draghi non è trasformismo, è destino. “Mi ha fatto una buona impressione” ha detto del dott. Draghi il ministro degli Esteri ed è tutta sorte segnata questa del secchio vuoto dell’innocenza di fronte alla severa corda della complessità. E figurarsi cosa avrà pensato incontrando la squisita grazia di Gianni Letta, custode di ogni inamovibile equilibrio.

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Che Luigi Di Maio possa compiacersi di Mario Draghi non è trasformismo, è destino. “Mi ha fatto una buona impressione” ha detto del dott. Draghi il ministro degli Esteri ed è tutta sorte segnata questa del secchio vuoto dell’innocenza di fronte alla severa corda della complessità. E figurarsi cosa avrà pensato incontrando la squisita grazia di Gianni Letta, custode di ogni inamovibile equilibrio.

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In principio fu Dario Franceschini. Gli attivisti del M5s sciamano per le strade di Roma, avvistano al tavolo di un ristorante il pezzo più pregiato del Pd ed è subito un vaffa su e vaffa giù. Ed è destino che sia proprio Franceschini a dare agli stessi che lo insultano – tra poco sarà già un anno dalla fine del Conte1 – il governo del bis: il Conte2.

  

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La storia è nota. Ed è già segno di un destino. A Matteo Salvini tutti dicono “stacca la spina, stacca la spina”. Lui, a quelli, gliela stacca la spina, ma ecco che il Pd si fa avanti e si prende tutto il contatore.

  

L’uomo forte del Pd, infatti, chiama Matteo Renzi, già ebetino a detta di Beppe Grillo, gli propone la contradanza – “Questa volta sarai tu a farti avanti, proponi l’alleanza con i Cinque stelle, e noi ti verremo dietro” – ed è destino che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, pur additato dal Luigi Di Maio1 quale meritevole di un sonoro impeachment, si ritrovi rasserenato dall’esatta esecuzione del piano: Renzi propone, Franceschini dispone e Luigi Di Maio da 1 è già bello che 2.

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Come lo sputo al cielo torna sempre, lavando la faccia a chi scaracchia, così ogni invettiva a suo tempo bruciata si ripropone capovolta: lo Psiconano che fu, Silvio Berlusconi nientemeno, oggi è il presidente – parole di Giuseppe Conte (2) – “la cui opera è scritta a caratteri cubitali nella storia”. Vale per chi si vuole male, ma anche per chi si vuol bene. E viceversa, all’infinito: i Gilet Gialli a lungo sostenuti in Francia sono prontamente sostituiti dalle mascherine della pandemia, manca poco e il signor Di Maio – da 1 a 2 – si propone per la campagna pubblicitaria Benetton, tanto è complicata la vicenda Autostrade.

   

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Tutto e il contrario di tutto fa capolino nella disarmante avventura dell’innocenza al governo – accettato il Tav, come pure il Tap, resta la questione Ilva – e non è per camaleontismo che si arretra rispetto ai proclami ma perché così sta scritto nelle cinque stelle. Magari è surrealismo o chissà quale patafisica e però è destino che tutto abbia svolgimento nell’esatto contrario. Il vaffa s’adopera nell’essenza del linguaggio in forza di una trasvalutazione reversibile: fa, insomma, del vaffa attivo, mandante, un vaffa passivo: ricevente. È lo stigma, il segno proprio di questo portato ideologico per cui l’anticasta si è fatta casta obbedendo al destino.

   

Dal Tav al Tap, al Mes, per arrivare al toc-toc. Quello all’uscio di casa Draghi, nel destino proprio di un’Italia a gambe all’aria, con Di Maio e l’ex presidente della Bce che nel frangente sono come Alessia Marcuzzi e Stefano De Martino laddove quest’ultimo recita il ruolo del ministro degli Esteri. La fuggevole Belen, in tutto questo, è Alessandro Di Battista, l’unico in questo manicomio di stelle a liberarsi nel caos. Danzante, manco a dirlo. E fuori destino.

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