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L’altra metà della forca

Francesco Cundari

Cronache dal mondo dei duri e puri. Come sarebbe bello se i grillini applicassero a tutte le inchieste le cautele dell’affaire Venezuela. E se Travaglio analizzasse sempre il contesto come nel caso Montanelli

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Sarebbe bello poter credere che da domani dirigenti e sostenitori del Movimento 5 stelle mostreranno la stessa scrupolosa diffidenza per le accuse non dimostrate, e la stessa indignazione per le relative strumentalizzazioni politiche, esibite oggi verso il quotidiano spagnolo Abc e la sua inchiesta sui finanziamenti del regime venezuelano al loro partito. E che saranno non meno inflessibili nel chiedere prove, rigore e cautela a giornalisti e avversari, anche quando gli accusati saranno altri. Sarebbe stupendo poter credere che giornalisti e opinionisti televisivi, da oggi in poi, faranno sfoggio dello stesso acuto senso storico, della stessa delicata sensibilità per le contraddizioni e le insondabili profondità dell’animo umano che tanti di loro – quei tanti che ne erano stati amici e colleghi, s’intende – hanno usato in questi giorni con Indro Montanelli.

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Sarebbe bello poter credere che da domani dirigenti e sostenitori del Movimento 5 stelle mostreranno la stessa scrupolosa diffidenza per le accuse non dimostrate, e la stessa indignazione per le relative strumentalizzazioni politiche, esibite oggi verso il quotidiano spagnolo Abc e la sua inchiesta sui finanziamenti del regime venezuelano al loro partito. E che saranno non meno inflessibili nel chiedere prove, rigore e cautela a giornalisti e avversari, anche quando gli accusati saranno altri. Sarebbe stupendo poter credere che giornalisti e opinionisti televisivi, da oggi in poi, faranno sfoggio dello stesso acuto senso storico, della stessa delicata sensibilità per le contraddizioni e le insondabili profondità dell’animo umano che tanti di loro – quei tanti che ne erano stati amici e colleghi, s’intende – hanno usato in questi giorni con Indro Montanelli.

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Sarebbe meraviglioso poter credere che da domani tutti i giornali e le televisioni del paese tratteranno qualunque inchiesta giudiziaria dovesse finire al centro dell’attenzione con la stessa sobria, asciutta, impassibile capacità di sintesi con cui hanno trattato il caso Csm (perché di questo si tratta e così va chiamato, non “caso Palamara”), evitando di pubblicare conversazioni senza alcun rilievo penale e limitandosi a riassumere l’essenziale di quelle a vario titolo rilevanti. Anche quando le intercettazioni non riguarderanno autorevolissimi esponenti della magistratura associata e altrettanto autorevoli giornalisti di tutte le testate.

 

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Da Palamara a Casaleggio, in questi giorni non sono mancate le illuminazioni improvvise, le conversioni, per non dire miracoli

Sarebbe bellissimo, ma non accadrà. Per la stessa ragione per cui non è mai accaduto prima: perché, per cambiare idea, bisogna pur averne una. Nel corso della propria vita è possibile seguire con la stessa coerenza principi anche diametralmente opposti, ma non contemporaneamente. Certo, in questi giorni non sono mancate le illuminazioni improvvise, le conversioni, per non dire veri e propri miracoli. Ovunque si volga lo sguardo par d’incontrare un figliuol prodigo sulla via del ritorno. Il 27 maggio, per esempio, Luca Palamara dichiara solennemente: “Assistere alla pubblicazione dei momenti più intimi della propria vita privata che coinvolgono estranei fa sempre male. Oggi sono dall’altra parte e accetto tutto questo perché non ho nulla da nascondere. Sono storture però sulle quali occorre nuovamente riflettere”. Per chi se ne fosse dimenticato, Luca Palamara, attualmente al centro dell’inchiesta sul caso Csm, è lo stesso Luca Palamara già sostituto procuratore impegnato nell’inchiesta su “Calciopoli”, per dirne una, nonché presidente dell’Associazione nazionale magistrati ai tempi della crociata contro la “legge bavaglio” (che voleva ridurre proprio l’abuso di intercettazioni da parte della magistratura e della stampa).

 

E cosa dire di Davide Casaleggio? Il 15 giugno, a proposito del caso Venezuela, scrive sulla sua pagina Facebook: “Io non so perché i direttori dei giornali italiani pubblichino fango in prima pagina solo per qualche click. I trenta denari moderni sono i click sul proprio articolo. Non è più importante se è vera o falsa, l’importante è che faccia traffico” (la malizia sarà anche nell’occhio di chi guarda, ma ortografia e sintassi sono nella penna di chi scrive, e non le ho toccate). Per chi se ne fosse dimenticato, Davide Casaleggio è il titolare della Casaleggio Associati, che a partire dal blog di Beppe Grillo, e poi con il partito che ci hanno costruito attorno, in quanto a fango e fake news per acchiappare click, si può ben dire che abbia fatto scuola. E’ davvero necessario rifare l’elenco? Dagli elogi al metodo Stamina o alla cura Di Bella alle fake news contro i vaccini, al negazionismo sulla Xylella, passando per il post in cui si dava avvio alla campagna di odio contro l’ex presidente della Camera con le parole: “Che fareste in auto con Laura Boldrini?”. No che non è necessario, anche perché sarebbe sempre niente in confronto all’indimenticabile video in cui Luigi Di Maio, il 18 luglio scorso, a proposito dei suoi attuali alleati di governo del Pd, scandiva: “Col partito che in Emilia Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli io non voglio avere nulla a che fare”. Il-partito-che-toglieva-alle-famiglie-i-bambini-con-l’elettroshock-per-venderseli. Testuale. E poi parlano di fango, fake news, strumentalizzazioni politiche. Si potrebbe fondare una confutazione logica della maggior parte delle religioni monoteiste sul fatto che nessuno di loro sia stato incenerito da un fulmine dopo aver pronunciato le parole “fake news”. Ma è probabile che a una simile tesi un bravo teologo obietterebbe che il fulmine sarebbe stato cosa di un attimo, e non avrebbe insegnato niente a nessuno; mentre con le parole di Nino Di Matteo, il pm antimafia che i grillini volevano addirittura al Quirinale, Massimo Giletti va avanti da mesi.

 

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Il populismo giustizialista ha una sua precisa sintassi. Non si fa ingabbiare in stringenti vincoli logici, si limita a evocare, alludere

E’ difficile trovare le parole per spiegare cosa significhi tutto questo per il Movimento 5 stelle, e in particolare per un ministro della Giustizia come Alfonso Bonafede (quello che “gli innocenti non finiscono in carcere”, quello del filmato sulla traduzione in carcere di Cesare Battisti, quello che tanto ha fatto per l’abolizione della prescrizione e la deriva giustizialista del nostro sistema). Impossibile immaginare cosa possa significare, per lui e i suoi compagni di partito, essere messi sotto accusa, in quei termini, da Di Matteo. In quei termini, vale a dire nel modo da sempre utilizzato da tutti costoro contro gli avversari: un misto di dico e non dico, accuso ma non preciso, alludo ma non escludo, fondato su una rigorosa giustapposizione delle insinuazioni. Perché anche il populismo giustizialista ha una sua precisa sintassi, una struttura paratattica che si guarda bene dal farsi ingabbiare nei vincoli logici delle proposizioni subordinate, limitandosi piuttosto ad accostare, evocare, alludere. La presunta contiguità politico-criminale trova così la sua perfetta rappresentazione nella semplice contiguità sintattica. Di Matteo non dice mai: Bonafede mi ha negato il posto al vertice dell’amministrazione penitenziaria perché così gli è stato ordinato dal boss mafioso tal dei tali. Dice che gli ha negato il posto, che ha cambiato idea da un momento all’altro in modo incomprensibile, e nella frase successiva aggiunge di aver saputo che i boss mafiosi in carcere, come risulta da informative che il ministro non poteva non conoscere, erano preoccupatissimi dall’ipotesi che lui ottenesse quell’incarico.

 

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L’immagine meravigliosa di Salvini che in Aula scandisce: “I porti aperti hanno salvato vite”. Lapsus? Intervento divino?

Non c’è bisogno di ripercorrere l’intero dibattito, portato avanti da Giletti con indiscutibile coerenza, puntata dopo puntata. Basta quella di domenica scorsa, dove il senatore grillino Ettore Licheri – dinanzi al conduttore che gli dice: “Vogliamo la verità” – è arrivato a scandire le seguenti parole: “Nessun ministro si è mai dimesso per delle sentenze. Per una semplice ragione: perché dobbiamo sempre tenere separato il potere esecutivo dal potere giudiziario”. Da scolpire nella pietra. Ma non è niente male anche il seguito, che si segnala per il surreale tentativo di buttarla in caciara con bizantinismi pseudo-giuridici, una sorta di latinorum senza latino, e pure con qualche difetto di italiano: “L’amplissima discrezione del magistrato fa sì che il magistrato, e non è un caso che tutte le sentenze vadano in questo senso, fa un percorso logico-giuridico, si aggancia a delle norme, e al termine del quale poi prende una decisione”. Alzi la mano chi ci ha capito qualcosa. Apoteosi finale, con Giletti che grida “e allora apriamo le celle, mandiamoli a casa tutti”, ripete che non ha sentito una parola dal ministro della Giustizia di fronte a quello che è emerso nella sua trasmissione, quindi incalza: “Io ho fatto un’inchiesta, sono stato attaccato, lei dovrebbe rispettare quello che abbiamo scoperto, sono solo in questa inchiesta, ho combattuto da solo, col silenzio di gran parte dei colleghi...”. E con Licheri, ormai evidentemente non più in grado di controllare le proprie emissioni vocali, che replica: “Se sono qui è anche un riconoscimento per il suo lavoro, però lei deve accettare anche le cose che non sono corrette”. Proprio così. Lapsus freudiano? Testacoda da incontinenza verbale? Colpo di sonno improvviso nel bel mezzo di una supercazzola? Intervento divino? Difficile dire.

 

 

Ma subito torna in mente l’immagine meravigliosa di Matteo Salvini che in Aula scandisce, tra gli applausi entusiasti di tutto il suo gruppo parlamentare: “I porti aperti hanno salvato vite. I porti chiusi condannano a morte migliaia di persone”. Non è facile restare atei di questi tempi. Dev’essere qualcosa nell’aria – chissà, magari è un effetto collaterale del Covid – perché il giorno dopo la trasmissione di Giletti, lunedì 15 giugno, lo stesso giorno del post di Casaleggio contro le fake news, sul Fatto quotidiano era possibile leggere Marco Travaglio negli inconsueti panni dell’avvocato difensore, rigido censore di ogni superficiale generalizzazione, di ogni impropria decontestualizzazione, di ogni lettura pregiudiziale, demonizzante, caricaturale di una vicenda – quella di Montanelli – che andrebbe al contrario ben precisata e contestualizzata. Il fatto di essere partito volontario nell’impresa coloniale del fascismo in Africa e qui aver comprato una sposa-bambina, Destà, di quattordici anni (per la verità Montanelli, in tutti i filmati in cui ne parla, dice sempre dodici, ma non perdiamoci nei dettagli), non può essere giudicato frettolosamente, secondo Travaglio, con i valori morali dell’Italia di oggi e con il senno del poi. Perché “oggi quel matrimonio combinato quasi un secolo fa sconcerta, come molte usanze tribali di ieri e di oggi (la ragazza era anche infibulata), mentre il ‘madamato’ fra le truppe coloniali è legato a quel clima storico”. E comunque “è assurdo parlare di schiavismo, violenza, stupro e pedofilia (Destà non avrebbe chiamato Indro il suo primogenito). E peggio ancora di razzismo”.

 

Il contesto. Le usanze dell’epoca. Il fatto che anni dopo, sposata a un altro uomo, avrebbe chiamato Indro il loro primo figlio. Essere messi sotto accusa da Travaglio è certamente spiacevole, ma forse, tutto considerato, è pur sempre preferibile al ritrovarselo come difensore. Elvira Banotti, la giornalista che in quella vecchia trasmissione televisiva del 1969 solleva la questione, ottenendo le risposte incredule che tutti hanno potuto riascoltare in rete in questi giorni, non ha usato la macchina del tempo, è lì presente davanti a Montanelli, sua contemporanea, ha appena ascoltato il racconto di come Destà gli portasse la biancheria pulita dalla sua viva voce, eppure è l’unica a scandalizzarsi del fatto che abbia comprato una bambina di dodici anni e ne parli ridendoci su (anche qui, per inciso, è sempre Montanelli a dire dodici). “Così Montanelli – prosegue l’arringa di Travaglio – sposò Destà, una ragazza di 14 anni e non di 12 che, com’era (e ancora in parte è) usanza nei paesi tropicali, era già una donna da marito (anche Maria di Nazareth si sposò a 13-14 anni: pedofilo pure Giuseppe?)”. Tralasciamo la grazia del riferimento evangelico in un simile contesto e andiamo alla conclusione del racconto. “A me ne parlò – prosegue Travaglio – quando gli chiesi chi fosse la ragazza di colore il cui ritratto campeggiava sulla sua scrivania, accanto a quelli di Maggie e Colette, la sua seconda e terza moglie. ‘E’ Destà, la mia prima moglie africana’, rispose, accarezzando la foto con tenerezza”.

 

Essere messi sotto accusa da Travaglio è spiacevole, ma forse, tutto considerato, è pur sempre preferibile al ritrovarselo come difensore

La foto si vede anche in quell’altro video tornato a circolare in rete (andate a guardare con i vostri occhi), un’intervista del 1982, e Montanelli a dire il vero non mostra tutta questa tenerezza quando parla della sua sposa dodicenne (sì, dice dodici anche qui), definendola un “animalino docile”. Tanto meno quando ricorda come prima di tornare in Italia l’avesse ceduta al generale Pirzio Biroli, che peraltro di simili “favorite” ne aveva già diverse, perché “era abituato ad avere un suo piccolo harem, un po’ come tutti... io no, ero monogamo per ragioni evidenti: non potevo consentirmi grandi lussi”. Si potrebbero aggiungere altri particolari anche più sgradevoli, ma l’uso di mostrificare una persona copincollando e decontestualizzando ogni dichiarazione imbarazzante che le è uscita di bocca non mi è mai piaciuto. Montanelli non può più difendersi, e per quanto fino all’ultimo si sia difeso malissimo, anche il riflesso difensivo di chi oggi cerca di sottrarlo a una sorta processo di piazza postumo ha qualcosa di nobile, che è giusto riconoscere. Sarebbe davvero bellissimo poter credere che da domani, nel nostro dibattito pubblico, tutti saranno giudicati con la stessa attenzione al contesto, alle circostanze attenuanti, alla pressione dell’ambiente e della società, con la stessa partecipe gentilezza con cui in tanti, e certo non solo sul Fatto, hanno giudicato in questi giorni i colonialisti fascisti e il modo in cui abusavano di donne e bambine. Sarebbe stupendo sapere che da domani lo stesso tatto sarà riservato anche all’oscuro sindaco di provincia accusato di abuso di ufficio. Auguriamoci che i diritti e la reputazione di tutti siano difesi sempre con altrettanta grinta. E se non è troppo chiedere, possibilmente, con argomenti migliori.

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