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Nuove divisioni Pd-M5s

Valerio Valentini

Il voto sulla Libia a rischio e le posizioni del M5s sulla Cina che imbarazzano gli alleati. I nuovi fronti dello scontento

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Roma. Una rogna sulla Cina, una grana vera e propria sulla Libia. E la costante è quella di un ministro che si rimette al volere del Parlamento con l’atteggiamento di chi non sa esattamente che scelta prendere, e pilatescamente prova a sgravarsi la coscienza. Così, almeno, è apparso Luigi Di Maio ai compagni di maggioranza di Pd, Iv e Leu che ieri sono stati convocati per un vertice virtuale: una riunione in videoconferenza tra il responsabile della Farnesina e i capigruppo e i sottosegretari agli Esteri dei partiti che del Movimento 5 stelle sono alleati al governo. Ed è risultato fin troppo chiaro che, sia sulla questione di Hong Kong, sia sul rinnovo delle missioni a sostegno della guardia Costiera di Tripoli, l’esecutivo giallorosso, e il ministero degli Esteri in particolare, fatica a indicare una strada. E la maggioranza, di conseguenza, entra in fibrillazione. 

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Roma. Una rogna sulla Cina, una grana vera e propria sulla Libia. E la costante è quella di un ministro che si rimette al volere del Parlamento con l’atteggiamento di chi non sa esattamente che scelta prendere, e pilatescamente prova a sgravarsi la coscienza. Così, almeno, è apparso Luigi Di Maio ai compagni di maggioranza di Pd, Iv e Leu che ieri sono stati convocati per un vertice virtuale: una riunione in videoconferenza tra il responsabile della Farnesina e i capigruppo e i sottosegretari agli Esteri dei partiti che del Movimento 5 stelle sono alleati al governo. Ed è risultato fin troppo chiaro che, sia sulla questione di Hong Kong, sia sul rinnovo delle missioni a sostegno della guardia Costiera di Tripoli, l’esecutivo giallorosso, e il ministero degli Esteri in particolare, fatica a indicare una strada. E la maggioranza, di conseguenza, entra in fibrillazione. 

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Sulla Libia, in particolare, il trambusto potrebbe trasformarsi in crisi, i malumori in dissidenza. Perché nelle prossime settimane, a cavallo tra giugno e luglio, il Parlamento dovrà autorizzare la prosecuzione delle missioni militari all’estero. E, tra queste, c’è quella di assistenza alla Guardia costiera libica. Che è senz’altro meno pericolosa di molte altre in cui sono impiegati i nostri corpi armati, dal Sahel all’Afghanistan, ma è tra quelle che politicamente risultano più controverse. Perché, nei fatti, il sostegno italiano alla Guardia costiera libica serve a Tripoli per intercettare i barconi dei migranti che provano ad attraversare il Mediterraneo e riportare sul suolo libico i disperati, che non di rado vengono poi trattenuti in carceri tutt’altro che rispondenti agli standard umanitari accettabili.

 

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Erasmo Palazzotto, che ieri alla videoconferenza organizzata da Di Maio rappresentava il gruppo di Leu, l’ha detto in modo chiaro: “Noi non siamo disposti a rinnovare questa missione così com’è”. E già i 5 voti di Leu, con altrettanti di ex grillini che a Leu gravitano intorno, bastano al Senato per far traballare una maggioranza risicata. Senza contare che, al momento, anche i renziani tentennano, restano ambigui sulla loro decisione: “Noi abbiamo chiesto da tempo – dice Davide Faraone, capogruppo di Iv a Palazzo Madama – che venissero modificati alcuni punti dell’accordo col governo libico”. E in effetti il governo italiano, attraverso i ministeri degli Esteri e della Difesa, ha avviato un confronto con le autorità libiche perché accolgano, tra le altre cose, un protocollo che almeno formalmente obblighi al rispetto dei diritti umani nelle strutture detentive. “Prima di decidere – prosegue Faraone – vogliamo capire cosa ne è stato di quella trattativa”.

 

Ma non basta. Perché anche nel Pd le perplessità sono molte, al riguardo. Specie al Senato, dove parecchi dem (da Nannicini alla Cirinnà, da Verducci alla Valente), hanno più volte alzato la voce sul tema. Nel luglio del 2019, quando il Parlamento fu chiamato a rinnovare la missione, le polemiche interne al partito furono tali che alla fine il Pd, che certo allora era all’opposizione, decise per astenersi in blocco. Insomma, un bell’enigma. Al punto che ieri, su pressione del Pd, Di Maio ha deciso di affidare alla dem Marina Sereni, la sua vice alla Farnesina, il compito di coordinare i lavori in vista del voto del mese prossimo.

 

Più imminente, invece, è quello che riguarda Hong Kong. Anche qui, da Pd e Iv è arrivata a Di Maio la richiesta di prendere una posizione di condanna rispetto alla repressione dei manifestanti locali da parte di Pechino. “Abbiamo deciso di muoverci compatti a livello europeo”, ha chiarito il ministro grillino, che pure, nel novembre scorso, s’era rifiutato di biasimare la violenza cinese perché “sarebbe un’ingerenza”. Nell’attesa che l’Ue si muova compattamente, però, si rischia di arrivare tardi. Perché nel frattempo, giovedì, a Pechino dovrebbe essere varata la legge sulla sicurezza nazionale che di fatto mina le libertà civili e l’autonomia di Hong Kong. “Potrà però esprimersi il Parlamento”, hanno convenuto ieri gli esponenti di maggioranza presenti. Ma lo si dovrà fare in fretta, con una mozione condivisa su cui la convergenza appare complicata. Perché, al netto delle rassicurazioni sul collocamento euroatlantico fornite anche ieri da Di Maio, quanto le distanze di vedute sulle questioni cinesi restino evidenti lo ha ribadito, anche ieri, il vivace e non proprio edulcorato confronto tra il sottosegretario grillino Manlio Di Stefano, risoluto difensore della Via della Seta, il suo omologo renziano Ivan Scalfarotto e Alessandro Alfieri, il più vicino dei senatori del Pd al ministro della Difesa Lorenzo Guerini

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