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Bonafede è incapace dunque resta

Salvatore Merlo

Come Alfano, il ministro non molla la poltrona perché sa che il governo è troppo debole per cacciarlo

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Roma. E’ il ministro che non molla la poltrona perché sa che il governo è troppo debole per cacciarlo. E infatti ogni minuto che passa senza che Alfonso Bonafede dia le dimissioni, in attesa della mozione di sfiducia di domani, consegna lui e il Movimento cinque stelle all’eternità di foresta della politica italiana, all’eterno ritorno dell’uguale. Perché proprio il metodo Bonafede che i grillini stanno sperimentando in questi giorni è quello antico del ministro esautorato ma salvato, dell’impresentabile ma blindato anche alle mozioni di sfiducia, il ministro inetto di cui tutti ridono, compresi gli amici e gli alleati, il ministro che tutti considerano inadeguato e che pure non si può toccare perché, come ben dice Pier Ferdinando Casini, “non si può mica aprire una crisi di governo”.

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Roma. E’ il ministro che non molla la poltrona perché sa che il governo è troppo debole per cacciarlo. E infatti ogni minuto che passa senza che Alfonso Bonafede dia le dimissioni, in attesa della mozione di sfiducia di domani, consegna lui e il Movimento cinque stelle all’eternità di foresta della politica italiana, all’eterno ritorno dell’uguale. Perché proprio il metodo Bonafede che i grillini stanno sperimentando in questi giorni è quello antico del ministro esautorato ma salvato, dell’impresentabile ma blindato anche alle mozioni di sfiducia, il ministro inetto di cui tutti ridono, compresi gli amici e gli alleati, il ministro che tutti considerano inadeguato e che pure non si può toccare perché, come ben dice Pier Ferdinando Casini, “non si può mica aprire una crisi di governo”.

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Ed ecco dunque che riemerge un cliché della politica di sempre, nuova e vecchissima storia, la stessa di Scajola e di Alfano, in tempi diversissimi, la stessa degli ormai preistorici ministri della Prima Repubblica. Abbastanza, insomma, da ritenere che l’equivoco grillino sia definitivamente entrato nel solito gioco italiano di paraventi e di furbacchioni: i Cinque stelle, con il loro esercito di ex emarginati fattisi parlamentari e ministri, quella classe dirigente reclutata da Grillo e Casaleggio con i metodi bizzarri e sempliciotti che abbiamo imparato a conoscere, hanno un pacchetto azionario che può mandare all’aria tutto il progetto politico del governo rossogiallo. Così domani l’opposizione cercherà di incunearsi come può in questa vicenda, ma senza troppo crederci. La Lega pensa di ritirare la propria mozione di sfiducia e di convergere su quella firmata da Emma Bonino che già ospita tre senatori leghisti, mentre Giorgia Meloni invece inarca le sopracciglia perché non ci crede affatto che Matteo Renzi alla fine sarà conseguente con la minaccia di votare contro Bonafede, in quanto ci sono – appunto – storie e paradigmi che in politica sono destinati a ripetersi nel tempo. E quello dell’inadeguato-salvato è precisamente un topos letterario, un luogo comune della cronaca politica italiana. Compresa la contorta difesa dell’impunito, tutta costruita sull’imbarazzo, sul balbettio e sulla contraddizione.

 

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Basta infatti ascoltare i (mal)umori del Pd per capire. “Sostituire Bonafede? Ma magari. Ottima idea”, si faceva sfuggire, già mesi fa, Alfredo Bazoli, il capogruppo del Pd in commissione Giustizia. Mentre il vicepresidente della commissione, Franco Vazio, sempre del Pd, gli rispondeva così: “Ma no, dobbiamo tenercelo. Chissà chi verrebbe dopo. Guarda che al peggio non c’è mai fine”. E insomma lo attacco ma lo difendo, non mi piace ma lo tengo lì, è un incompetente ma non gli voto la sfiducia. Bonafede poteva dimettersi, certo, e qualcuno ci aveva anche provato a suggerirglielo, come Graziano Delrio. Le dimissioni, date prima che ti ci costringano, infatti nobilitano e sono eleganza. Ma per questo sono anche un’attività ben poco praticata. Figurarsi dai Cinque stelle. Figurarsi da Bonafede, che esercita la sua attività di ministro della Giustizia con lo stesso spirito di quello che ha vinto incredibilmente la lotteria e quindi custodisce il fortunato biglietto in un doppio fondo cucito nelle mutande. Quando gli ricapita? Eppure Emma Bonino gli ha costruito una mozione di sfiducia abbastanza affilata da potergli anche scucire quei mutandoni di latta. Bonafede è il ministro che, sospeso tra ignoranza e fanatismo, ha concentrato “la sua azione contro i fondamentali princìpi della civiltà giuridica”: dalla violazione del principio di ragionevole durata del processo allo svilimento delle impugnazioni, dalla negazione del fine rieducativo della pena all’abrogazione di fatto della presunzione di non colpevolezza, dalla rivolta delle carceri alla riforma inquisitoria delle intercettazioni. Ed è inoltre il ministro che annunciava – ma non presentava – una riforma del sistema elettorale del Csm per sottrarlo allo strapotere delle correnti proprio mentre il suo stesso ministero diventava oggetto di scontri e polemiche legate all’influenza delle correnti della magistratura associata nelle nomine di magistrati fuori ruolo, una storia che appena pochi giorni fa ha portato alle dimissioni del suo capo di gabinetto.

 

Ma in Italia, si sa, si dimettono soltanto gli innocenti o i capri espiatori (non solo il capo di gabinetto ma anche quello del Dap) e invece resistono, con le unghie e con i denti, i colpevoli e soprattutto i furbacchioni, che sono una sottomarca degli intelligenti. Bonafede è per la giustizia come il generale Cadorna che, dopo Caporetto, scaricò la responsabilità del suo tragico comando sui soldati (morti): “La viltà dei nostri reparti ha permesso al nemico…”. E come ben si vede è tutto già successo, e i grillini semplicemente si adattano, reiterano, imitano e ci ricordano ogni giorno come tutte le rivoluzioni italiane finiscano allo stesso modo: a tavola.

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