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Perché la liberazione dal coronavirus non è un 25 aprile

Mattia Ferraresi

Il parallelo con il 1945 è un inganno della Metafora Bellica, che presenta la storia solo come dialettica fra vincitori e vinti

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Roma. La festa della liberazione cade quest’anno nel mezzo della Grande Metafora Bellica, quella che ci sprona a combattere un nemico invisibile, ad applaudire i medici in prima linea, o in trincea, a lottare per sconfiggere il coronavirus, a esaltare le armi potenti della quarantena e del distanziamento sociale, che però funzionano solo se le usiamo in modo coordinato, come un esercito votato a una causa comune. Gli americani, avvezzi a dichiarare guerra al cancro, alla droga, alla povertà, sono passati già da tempo ai riferimenti espliciti alle truppe, all’artiglieria, all’avanguardia e alla retroguardia, e adesso che ci si affaccia timidamente alla fase di riapertura si invoca l’armistizio, la ricostruzione, il piano Marshall. L’armamentario retorico della guerra (metafora nella metafora) è un classico nel racconto delle epidemie e delle minacce in genere, se ne trova traccia più o meno in qualunque cultura ed epoca, perché farsi la guerra è un’attività che gli esseri umani conoscono molto bene da sempre. Il riferimento arriva a tutti. E’ poi particolarmente efficace perché “le guerre sono concepite come ‘vincibili’: ci sono cioè vincitori e vinti”, ha detto uno studioso di nome J. Blake Scott, della University of Central Florida, intervistato da Vox.

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Roma. La festa della liberazione cade quest’anno nel mezzo della Grande Metafora Bellica, quella che ci sprona a combattere un nemico invisibile, ad applaudire i medici in prima linea, o in trincea, a lottare per sconfiggere il coronavirus, a esaltare le armi potenti della quarantena e del distanziamento sociale, che però funzionano solo se le usiamo in modo coordinato, come un esercito votato a una causa comune. Gli americani, avvezzi a dichiarare guerra al cancro, alla droga, alla povertà, sono passati già da tempo ai riferimenti espliciti alle truppe, all’artiglieria, all’avanguardia e alla retroguardia, e adesso che ci si affaccia timidamente alla fase di riapertura si invoca l’armistizio, la ricostruzione, il piano Marshall. L’armamentario retorico della guerra (metafora nella metafora) è un classico nel racconto delle epidemie e delle minacce in genere, se ne trova traccia più o meno in qualunque cultura ed epoca, perché farsi la guerra è un’attività che gli esseri umani conoscono molto bene da sempre. Il riferimento arriva a tutti. E’ poi particolarmente efficace perché “le guerre sono concepite come ‘vincibili’: ci sono cioè vincitori e vinti”, ha detto uno studioso di nome J. Blake Scott, della University of Central Florida, intervistato da Vox.

 

La celebrazione del 25 aprile, già gravata dai soliti fardelli storici puntualmente ripescati a uso strumentale, non poteva quindi resistere alla sovrapposizione fra la liberazione dalla tirannia di allora a quella dal virus di oggi, mescolando il 1945 e il 2020 in un gran calderone dove tutte le liberazioni finiscono per avere un po’ lo stesso sapore. Nella sua chiamata a raccolta delle forze della memoria, l’Anpi ha parlato della “forza e la tenacia per poter scorgere un orizzonte di liberazione”, oggi più che mai, la Cgil ha risposto dicendo che “vogliamo dare il nostro contributo affinché il coronavirus sia sconfitto presto”, la Cisl ha ricordato che “ci fu un tempo, dove non fu un virus a fare in modo che si creassero queste distanze in Europa, ma furono uomini che imposero un regime totalitario”, mentre l’Unione degli universitari ha spiegato che “resistere oggi è anche non darsi per vinti contro un nemico invisibile come quello che stiamo affrontando”. Senza contare gli odierni rischi di derive reazionarie ampiamente citati da molti dei soggetti coinvolti nelle celebrazioni di unità nazionale. Per quanto la quarantena abbia messo dentro chiunque nel mondo la voglia di una fase due, tre, quattro ecc. in cui ciascuno se ne va dove crede senza Dpcm né autocertificazioni – e forse anche i cerbiatti a questo punto hanno voglia di tornare nei boschi, dopo le scappatelle sull’asfalto – il parallelo non tiene, la metafora cede. Innanzitutto, per una questione di puro pragmatismo: il virus non cade come un regime, non ci saranno gli annunci e le parate dove ci si ritorna ad abbracciare e baciare, non è un giorno di sole dopo tanta pioggia, anche se Giorgia Meloni ha pescato dal cassetto degli anni Novanta il diario con la citazione del Corvo. I leader di un certo calibro, genere Angela Merkel, sono passati al linguaggio della convivenza: “A nessuno piace sentirselo dire, ma è la verità: non siamo nello stadio finale della crisi, ma solo all’inizio. Abbiamo ancora molto tempo davanti in cui dovremo convivere con il virus”. Non c’è armistizio possibile in questa guerra, dunque. L’altro aspetto di questa asimmetria tirannico-virale è che la guerra contro il virus non è realmente “vincibile”: pertiene alla dimensione dell’imprevedibile, è una abissale esposizione della fragilità umana di fronte a forze che rimangono sproporzionate e perfino oscure, nonostante i commoventi sforzi della scienza di fare luce, capire, e magari controllare. Non ci saranno veri sconfitti, in questa immaginaria riedizione del 1945, e dunque non c’è liberazione possibile, almeno non nel senso in cui questa viene intesa nel giorno in cui si celebra la resistenza al fascismo, al nazismo e a tutte le loro brutture novecentesche. La fine della pandemia basterà a restituirci come creature liberate dopo le sofferenze subite da un regime oppressivo? Forse è meglio celebrare la memoria storica per quel che è, augurandosi nel frattempo la liberazione dalle metafore.

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