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L’Ilva funesta del Pd

Salvatore Merlo

“Conoscevamo il populismo grillino, ma la scissione di Renzi sta prendendo caratteri populisti”. Parla Andrea Orlando

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Roma. L’Ilva come specchio delle contraddizioni populisteggianti di un governo che sul grande impianto siderurgico di Taranto sta forse riuscendo a fare peggio del precedente, “va incontrata la proprietà, va scongiurato lo spegnimento dei forni perché equivarrebbe alla chiusura definitiva dell’impianto. E’ chiaro che la proprietà sta cercando di massimizzare la propria posizione. Mi auguro anche che sulla questione dello scudo penale il governo possa trovare una soluzione”, dice Andrea Orlando. E quindi ecco le difficoltà di un esecutivo in cui la maggioranza “non riesce a diventare una coalizione” e in cui “i populismi con i quali il Pd deve avere a che fare sono ormai diventati due”, cioè non solo i 5 stelle, che erano per così dire previsti, ma adesso anche Matteo Renzi, “il che rende l’idea di quanto siano complicate le cose”. Dunque le prospettive incerte ma anche ambiziose del centrosinistra largo, l’alleanza in Emilia-Romagna con i grillini “che non sono solo Luigi Di Maio e per questo bisogna insistere” e di conseguenza il rapporto elettorale con quella parte del Movimento che si dichiara biodegradabile e vorrebbe decomporsi per l’appunto nel centrosinistra. Possibile mai? “Il populismo è biodegrabile come il veleno”, ride Orlando. “In piccole dosi può essere curativo. Ma se ne prendi troppo muori”.

 

Cinquant’anni, spezzino, ex ministro della Giustizia e oggi vicesegretario del Pd, quando Andrea Orlando analizza l’attuale fase politica trova un difficile compromesso tra l’ambizione e la realtà, le speranze e i rischi, perché, spiega, “l’obiettivo di questo governo era assorbire il populismo, era di farlo diventare un elemento di stimolo di riforma profonda del sistema bipolare. Ma se la dose di populismo diventa eccessiva il rischio è che l’Italia rotoli inconsapevolmente fuori dalla democrazia liberale”. E allora è esattamente in questa fase che si trovano la politica e la democrazia italiana, sembra dire Orlando, che è stato tra i sostenitori dell’avventura del Bisconte e del governo rossogiallo: una democrazia e una politica sospese tra due ipotesi di futuro antitetiche. “Rendere compatibile una parte del populismo o assistere al trionfo d’un bipolarismo interpretato da populismi contrapposti”.

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E in mezzo a tutto questo c’è il Pd, il partitone che fu comunista e democristiano, con la sua identità in bilico, lo strano congresso lanciato da Nicola Zingaretti, le tentazioni di riperticare le antiche lotte di corrente e invece l’aspirazione a una rinascita, o come dice Orlando, a una “ridefinizione del partito, della sua cultura, delle sua identità, del suo modo di stare nel dibattito pubblico e di rapportarsi con i cittadini”. Il congresso dunque, il nuovo statuto, la riforma salvifica che secondo Orlando dovrebbe anche essere il mezzo attraverso cui favorire l’evoluzione del populismo grillino. Ammesso sia possibile. E chi sarà il segretario? “Io penso a Zingaretti ovviamente. Ma non è nemmeno necessario che il congresso si occupi di eleggere il segretario. Ci vuole soltanto un meccanismo che coinvolga ancora di più, che aiuti la partecipazione, che in qualche modo rimescoli anche una parte dell’organigramma e del gruppo dirigente”. Dicono che Orlando voglia fare il segretario. Lui dice di no. Forse si arrabbia. “Solo un idiota può pensarlo. Non ho fatto il ministro perché avrei reso più difficile il rinnovamento della compagine di governo. Ma ho rinunciato anche per occuparmi del partito. E dedicarsi al partito significa dedicarsi alla ricostruzione non alla battaglia. Se dico che non voglio fare il segretario penso mi si possa prendere sul serio. Quelli che fanno illazioni non mi sembra abbiano mai rinunciato a un incarico in vita loro”. 

 

 

Mentre la vicenda dell’Ilva a Taranto sembra arrivare al più cupo dei capolinea, ecco che Andrea Orlando misura le parole. “Qualunque forzatura o giudizio affrettato può solo peggiorare la situazione. Io ho firmato il decreto di commissariamento dell’Ilva. Non possiamo rassegnarci alla deindustrializzazione, bisogna coniugare produttività e sostenibilità dei processi produttivi”. Ma sulla storia dell’Ilva il Pd è sembrato andare a rimorchio dei 5 stelle, ha forse assecondato il richiamo della foresta. Lo scudo penale tolto, rimesso, e ritolto è stato una follia. “Spero il governo trovi una soluzione e tolga degli alibi”, risponde Orlando. E si capisce però che il rapporto con i 5 stelle, questa alleanza che forse ha contaminato i grillini ma di sicuro ha contaminato il Pd, è insieme l’epicentro di tutti i problemi ma anche l’innesco di un’ipotesi sulla quale il Pd investe moltissimo. “Noi abbiamo fatto una scelta basata su un pronostico: cambiare i populisti”, ripete Orlando. “Ma perché questo sia possibile, il Pd deve avere sufficiente forza e determinazione per cambiare prima se stesso. Dobbiamo insomma ricostruire un rapporto con settori popolari della società che si sono allontanati, per poi poter svolgere una funzione egemone. Recuperare autonomia dall’establishment e dagli interessi consolidati. Ma questa ipotesi si è complicata. Il populismo è una prassi che ha contaminato tutti. Il tentativo di scaricare l’insoddisfazione popolare per il funzionamento della democrazia liberale contro alcuni aspetti del suo stesso funzionamento (il fisco, la giustizia, la politica, l’integrazione europea) è una tentazione che è stata frequente anche nel campo del centrosinistra. Avevamo messo in conto di avere a che fare con il populismo grillino, ma la scissione di Renzi, che era di per sé un problema, sta prendendo caratteri populisti anch’essa. E’ ovvio che se fai una scissione poi polemizzi ed entri in competizione con quelli che hai lasciato, ma la novità è che questa competizione si sta giocando utilizzando i tipici strumenti del populismo stimolando i 5 stelle sullo stesso terreno. Adesso in pratica abbiamo a che fare con due forze populiste. E gli effetti si riverberano nella gestione quotidiana del governo. Si fa polemica su un aumento di 0,2 centesimi sulle bottiglie di plastica e non si nota che è diminuita la pressione fiscale sulle buste paga e si scorda di dire che abbiamo evitato un aumento dell’Iva di 500 euro a famiglia. Oppure passa in cavalleria gli accessi gratuiti agli asili nido, mentre ci si concentra sulle tasse alle bibite zuccherate. Poiché la maggioranza non è ancora una coalizione, si è scatenato un gioco a fregare qualche voto all’alleato anziché lavorare alla nascita di un fronte per battere gli avversari”.

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Quindi bisogna trasformare la maggioranza in coalizione. Ma dopo la sconfitta umbra Di Maio non si vuole più alleare. A cominciare dall’Emilia. “Ci sta che le alleanze locali poi non si concretizzino, ma quello che non si può fare è dire pregiudizialmente di no, anche perché getti un’ombra sul livello nazionale. Ora il Pd deve tenere aperta la proposta di alleanza. Se vogliamo criticare le scelte a intermittenza di Di Maio non possiamo avere un atteggiamento simile al suo. Bisogna insistere e dare forza a chi nei 5 stelle vuole lavorare a questa prospettiva”. Ma perché insistere su un’alleanza con un partito che si avvia all’estinzione? A ogni tornata elettorale il M5s dimezza le sue percentuali. “Alle europee, in molte circoscrizioni, al sud e nelle isole, il M5s è ancora la prima forza. Il punto però non è inseguirli, ma provare a parlare ai loro elettori. E non si può parlare all’elettorato senza interloquire con i gruppi dirigenti”.

 

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Da qui l’idea di un congresso che rinnovi il Pd. E che lo renda capace di diventare egemone nei confronti dei populisti. Anche se le proposte di modifica dello statuto fin qui sembrano far assomigliare il Pd al M5s: democrazia diretta, piattaforme elettroniche, sondaggi tra i cittadini/elettori. E’ il Pd che diventa grillino, non il contrario. “Non è così”, risponde Orlando. “Vogliamo fare quello che fanno tutti i partiti europei, cioè costruire un rapporto non occasionale con la base e gli elettori. E’ naturale che l’accostamento adesso possa essere fatto con i 5 stelle, che però hanno trovato soluzioni discutibili”. Cioè Rousseau. “Loro hanno privatizzato lo strumento, che funziona con scarsa trasparenza. Ma utilizzare nuove tecnologie per avere una interlocuzione costante con gli elettori è una tendenza di fondo che riguarda tutte le forze politiche europee. Esistono nuovi strumenti tecnologici che oggi consentono interazioni che prima non erano possibili. Trovo normale che ci si chieda se possano essere utilizzati in politica. La differenza con l’azienda-partito è nel come si utilizza la piattaforma digitale e come la si controlla. Che si passi dalla diffusione porta a porta dell’Unità a una app digitale io lo trovo normale. Noi non abbiamo la pretesa di sostituire con una piattaforma digitale i gruppi dirigenti lasciando poi decidere a un gruppo dirigente ‘parallelo’. Ma abbiamo capito che chiamare i cittadini a esprimersi soltanto sui nomi e i cognomi alle primarie non costruisce fino in fondo una comunità. Una comunità deve potersi pronunciare su grandi scelte di senso programmatico e politico”. Dunque una versione democratica di Rousseau, un nuovo statuto e un congresso a tesi? “Dobbiamo trasformarci in un partito che non si confronta solo sui nomi ma sulle idee. Per me va bene. Ma qual è il passaggio che ci serve per riposizionarci e rispondere alla scissione? Non basta la discussione dei gruppi dirigenti. Ci vorrebbe qualcosa che sancisca un consenso più largo”. L’elezione del segretario. “O l’elezione di altri membri dell’assemblea nazionale. Vorrei una discussione sulle tesi ma anche un momento di competizione almeno su una parte della platea congressuale. Vedo che Dario Nardella mi rimprovera di tatticismo, ma io vedo invece un’illusione burocratica. Discutere solo di tesi rischia in questa fase di non dare sufficiente forza nemmeno alle tesi stesse”.

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