Il vicepremier del M5s, Luigi Di Maio, accanto al presidente della Camera Roberto Fico (Foto LaPresse)

Per Di Maio meglio l'uscita di Fico che la morte del governo

Valerio Valentini

Il capo politico ha già deciso: il governo della paralisi non si tocca. "Chi critica sia pronto a dimettersi", dice Fantinati 

Roma. La conferenza tanto attesa è finita da pochi minuti e sulle loro chat i parlamentari del M5s già se la ridono: “Passiamo da ‘Insieme a te non ci sto più’ a ‘Se mi lasci non vale’”. Si respira insomma l’aria dello scampato pericolo, nelle truppe grilline, che d’improvviso vedono di nuovo allungarsi la prospettiva di un governo che si vorrebbe del cambiamento, ma che è in realtà il governo dell’impantanamento, un po’ affari correnti e un po’ tengo famiglia, che solo nello stallo sa trovare l’accordo eppure alla fine un accordo lo trova sempre. Sì, perché in questa manfrina infinita, nessuno vuole davvero rompere.

 

Non lo vuole Matteo Salvini, che nel pomeriggio impone l’ordine del silenzio ai suoi deputati e senatori (“Niente commenti, parla solo il segretario”) e poi non attende neppure che Giuseppe Conte finisca di parlare, e appena avverte che il premier sta cercando di mettere nelle sue mani il cerino della crisi (“Ci sta stanando per conto del M5s”, s’allarmano tra sé i leghisti) le alza subito, le mani: “Noi siamo pronti, vogliamo andare avanti e non abbiamo tempo da perdere”. E non lo vuole in fondo neppure Luigi Di Maio, che rilancia: “Questa è l’unica maggioranza possibile. Andiamo avanti con lealtà e coerenza”. Come se insomma avessimo solo scherzato: l’ultradestra, il Viminale incapace di gestire i rimpatri, la Lega amica dei corrotti: tutto sepolto sotto la paura dell’eclissamento irreversibile del capo grillino, che piuttosto che rompere con Salvini mette semmai in conto di rompere con quel pulviscolo di dissidenti che ancora stanno dentro il suo movimento.

 

Lo dimostra, non a caso, l’irritazione con cui il capo grillino ha commentato le frasi di Roberto Fico durante la Festa della Repubblica. “Parla a titolo personale”, diceva il vicepremier, salvo poi far filtrare retroscena sdegnati in cui ci si chiedeva se il presidente della Camera non stesse lavorando per un’intesa col Pd, per far crollare tutto. Scenari entrambi irrealistici, in realtà. Anche perché, per mettere in atto una macchinazione del genere, ci servirebbero visione e personalità. E Fico, questo apprendista Bartleby sempre pronto a dire “preferirei di no”, sembra in verità più simile a Don Abbondio che non il coraggio proprio non se lo può dare. Lo si capisce quando perfino Paola Nugnes, la senatrice che forse gli è più vicina, di fronte all’ipotesi di una “scissione” interna si stringe nelle spalle: “Ci vorrebbe – dice – la volontà di un personaggio di grande spessore e di forte capacità aggregante”. Come a dire che no, Fico “quella volontà” non ce l’ha.

 

Del resto, il presidente della Camera non ha neppure un suo plotone pronto all’assalto. “Si tratta più che altro di schegge impazzite”, dice la deputata Vittoria Baldino. Mattia Fantinati, sottosegretario alla Pa, uno dei lealisti che di mettere in discussione la leadership di Di Maio non c’ha pensato neppure nelle ore più tribolate del 27 maggio, la mette giù ancora più dura: “Onestamente – si sfoga – sentire da alcuni dei nostri che ci siamo venduti è inaccettabile. Siamo sicuri che chi ritiene impresentabile e insostenibile questa maggioranza di governo sarebbe anche disposto a rinunciare a incarichi, nomine e presidenze che questa stessa maggioranza di governo gli garantisce di ricoprire”. E il riferimento immediato è a Fico, ovviamente, e al suo scranno privilegiato a Montecitorio. Ma l’allusione più sottile è anche a Luigi Gallo, deputato “fichiano” – qualunque cosa questa etichetta significhi – che guida la commissione Cultura della Camera. E poi, più sotterranea ma non meno sentita tra i parlamentari grillini, c’è la contestatissima nomina di Francesco Floro Flores, imprenditore napoletano stimato da Fico che è stato promosso sia consigliere di Cassa depositi e prestiti sia commissario straordinario a Bagnoli: “In quel caso, l’accordo con la Lega andava bene, ora invece diventa inaccettabile?”.

 

Malignità, certo. Che però, al netto delle piccole faide interne, testimoniano di come, nel M5s, la voglia di restare al governo sia enorme. Costi quel che costi. “Non è che puoi prendere undici milioni di voti e poi rinunciare a governare dicendo ai tuoi elettori ‘Scusate, ma noi dobbiamo ritrovare la nostra dimensione’”, dice Giuseppe Buompane, vicepresidente grillino della commissione Bilancio. “La prossima volta, sennò, alle urne ci asfaltano”. E insomma forse non ci sarà, la resa dei conti interna al M5s: non ci sarà perché, nel momento della conta, quelli pronti davvero a mollare non sono che dieci o quindici alla Camera, e quattro o cinque al Senato. Ma se pure dovesse arrivare, quello scontro finale, Di Maio ha già deciso: meglio la sopravvivenza del governo che l’unità del M5s. Quanto a Fico, su di lui la sentenza l’hanno già emessa gli uomini dell’esecutivo grillini: “Cacciarlo? Non serve. Finirà per mettersi fuori da solo”.

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