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Ettore Bernabei, l'uomo di fiducia

Ettore Bernabei (1921-2016) fu il distillato purissimo del regime democristiano al suo colmo di pervasività, di efficienza, di civiltà politica.
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Ettore Bernabei (1921-2016) fu il distillato purissimo del regime democristiano al suo colmo di pervasività, di efficienza, di civiltà politica. Pochi ne hanno ancora una memoria lucida, ma senza quel che il vecchio patriarca fiorentino ha rappresentato, con i suoi otto figli e le sue schiere di nipoti e bisnipoti, senza la sua peculiare saggezza cristiana, la sua arte tenace del segreto, il suo gusto non effimero per il potere, la sua expertise incontestata in materia di comunicazione e tenuta sociale, il regime bianco che ci ha fatti così come siamo, tirandoci fuori dai disastri aureolati del Risorgimento e dalla catastrofe senza veli del fascismo, non sarebbe così memorabile e nemmeno spiegabile. Aveva gli occhi piccoli e prensili che sono il tratto delle intelligenze caparbie, mobili, pratiche, e ormai trattava tutti i suoi interlocutori con il metodo usato, secondo il figlio Roberto, che ne ha parlato all’ambone con vivacità paterna, nella formazione dei ragazzi: poche carezze e molta disponibilità. Pare fosse invecchiato bene, fenomeno abbastanza raro, convertendo in pazienza e dolcezza non sentimentale quel tanto di asprigno che era del giornalista fiorentino educato alla scuola dura della ricostruzione del paese e della Guerra fredda.

 

Ieri a Roma, nella parrocchia dell’Opus Dei che Bernabei frequentava assiduo e fattivo alla sua bella età, da rigoroso fedele e da milite convinto di una comunità devota alla santificazione del quotidiano, lui che non sapeva concepire una sola giornata senza la santa messa, il creatore della televisione di stato, molto più di un banale servizio pubblico, è stato celebrato e ricordato in sobria pompa prelatizia e nella calda rassicurante atmosfera familiare e amicale che era stata il sostegno della sua vita spesso brusca e impaziente (Giorgio La Pira e Amintore Fanfani i suoi maestri). Una vita con un gran senso dell’opaco e del backstage ma piena di immagini estroverse, allegre, tra le quali si ricordano sempre le calzamaglie delle gemelle Kessler, e di arcani segnacoli della fede cattolica, specie quelle che aveva creato lui da direttore generale e poi da produttore di grandi serie storiche sulla Bibbia e sui santi e sui papi. Erano i funerali di quello che ciascuno considerava per sé e per tutti “l’uomo di fiducia”, come Bernabei si lasciò genialmente definire in un racconto biografico elaborato per lui da Giorgio Dell’Arti, quando decise a sorpresa di uscire dal cono di buio fitto fitto che aveva per quasi tutta la vita procurato di non violare mai, il doppio cattolico del laico Enrico Cuccia.

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Roma, nella chiesa di Sant'Eugenio i funerali di Ettore Bernabei (foto LaPresse)


 

Era innamorato del miracolo italiano, che per lui si prolungò dal giornalismo politico negli anni Cinquanta alla Rai degli anni Sessanta, fino a un altro quindicennio nelle Partecipazioni statali, alla testa della finanziaria Italstat che organizzava l’investimento nelle infrastrutture e le opere dell’ingegneria civile. Pensava, con una punta di civettuola concessione al demonismo complottardo, che inglesi e olandesi, potenze protestanti o antipapiste, fossero il nucleo combattente di una permanente congiura contro la stabilità politica dei paesi cattolici e in particolare dell’Italia. Le Partecipazioni statali diventarono poi, semplificando e mistificando, il nido vituperando dei fondi neri e della corruzione pubblica, così come la Rai che metteva a letto contenti gli italiani fu considerata uno strumento di propaganda del regime dc, il regime para-vaticano dei mutandoni alle ballerine e delle verità prefabbricate. Bernabei di queste idee così spicciative e di tanto facile successo, da quando scuola e informazione avevano modificato nel profondo e uniformato i criteri di giudizio delle masse in ribellione, sorrideva bonariamente, infatti non era vendicativo o risentito, ma sorrideva senza troppa indulgenza. Gli successe di parlare un giorno con un conoscente del rapporto tra l’onestà e la redenzione dell’uomo, la sua salvezza. Credeva o credeva di credere, con la sua sulfurea e cattolicissima teologia del vivere civile, che non si è redenti perché si è onesti, al contrario si arriva a essere onesti perché si è redenti o redimibili.

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