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Renzi ha un problema di fiducia (che si risolve facendo arrabbiare i tassisti)

Dal punto di vista economico esiste invece un tema più delicato, e forse più importante, bene inquadrato dal New York Times: Renzi sbaglia a vantarsi dei risultati ottenuti dal Jobs Act in quanto gli indicatori relativi all’occupazione italiana dimostrano che la riforma non ha sortito gli effetti sperati.
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Archiviata la storia della mozione di sfiducia a Maria Elena Boschi, di fronte a Matteo Renzi c’è un’altra questione importante che il presidente del Consiglio farà bene ad analizzare in queste settimane e che riguarda un tema simile a quello affrontato da Boschi: la fiducia, ovvio. Problema: esiste o no, da parte di chi ha sempre sostenuto l’opera dell’ex sindaco di Firenze, un problema di fiducia nei confronti di Renzi legato alle performance del suo governo? Dal punto di vista delle riforme istituzionali il renzismo corre molto veloce e in due anni il presidente del Consiglio ha ottenuto risultati notevoli (riforma elettorale, riforma costituzionale, in dirittura d’arrivo).
 
Dal punto di vista economico esiste invece un tema più delicato, e forse più importante, messo bene inquadrato la scorsa settimana dal New York Times, che in un editoriale di fuoco, il 15 dicembre, ha scritto che Renzi sbaglia a vantarsi dei risultati ottenuti dal Jobs Act, l’altra grande riforma chiave di questo governo, in quanto gli indicatori relativi all’occupazione italiana dimostrano che la riforma non ha sortito gli effetti sperati. “Dall'inizio dell’anno il numero dei posti di lavoro a tempo indeterminato, che la riforma puntava a incrementare, è rimasto perlopiù stabile, mentre quello dei lavori con contratto a termine ha continuato a crescere… Il modesto aumento dell’occupazione complessiva più che alla recente riforma del governo Renzi, è dovuto all’aumento dell’età pensionabile da parte dei governi precedenti a quello attuale… Tra gennaio e ottobre di quest’anno, con l’economia in leggera crescita, in Italia sono stati creati 83 mila posti di lavoro netti, meno della metà dello scorso anno, quando nello stesso periodo i nuovi posti di lavoro erano stati 174 mila… Se poi anziché ai dati sulla disoccupazione si guarda a quelli relativi all’occupazione, si scopre che in realtà a ottobre essa è calata di 39 mila unità a ottobre, dopo un calo di 45 mila unità a settembre”. I dati citati dal New York Times sono naturalmente corretti ed è solo una magra consolazione sostenere che il bilancio della domanda di lavoro nel 2015 sia positivo e che nel 2016 le unità di lavoro (dati Confindustria) aumenteranno dello 0,9 per cento e dell’1,1 per cento nel 2017, arrivando a 1,2 milioni di unità di lavoro in meno rispetto al livello pre crisi e a 877 mila in più rispetto al minimo di fine 2013.
 
Le cose non vanno male ma se non vanno bene come invece potrebbero andare, e come giustamente scrive il Nyt, non è perché la riforma del lavoro non funziona ma è perché non può esistere alcuna riforma del lavoro funzionante senza che vi sia un paese capace di creare posti di lavoro, di spezzare le catene della burocrazia, di sfidare fino in fondo le corporazioni, di liberalizzare, di rivoluzionare la macchina della giustizia, di ristabilire un equilibrio tra poteri della politica e poteri della magistratura, di stimolare la concorrenza, di offrire un modello non solo funzionante ma anche coerente di politica industriale (che disastro Ilva, caro Renzi e caro ministro Guidi). Il ministro Padoan, nelle ultime settimane, ha riconosciuto che le stime di crescita rischiano di essere riviste al ribasso per questioni legate alla paura generata dal terrorismo e alla grande stagnazione secolare con cui si ritrova a fare i conti il nostro continente ma la versione del governo ci racconta solo una mezza verità che si può capire solo analizzando la fase delicata vissuta oggi dal renzismo.
 
Il 2016 sarà un anno importante per Matteo Renzi e, se è vero che l’approccio che il presidente del Consiglio seguirà per presentarsi al referendum di fine anno sarà quello del “Go big or go home”, è anche vero che il segretario del Pd sa perfettamente di non poter continuare a navigare in modalità “io contro il resto del mondo”. E in questo senso il rischio è che in nome di un quieto vivere Renzi imposti il 2016 giocando più la carta della mediazione che della rottamazione, rinunciando così a inserire nelle arterie del paese l’unico siero capace di rendere davvero efficace il jobs act: quelle riforme hard che di solito non creano consenso, e che anzi hanno l’effetto di fare incazzare molto, ma che hanno l’effetto, molto hard, di frustare l’economia del paese come se fosse un cavallo. Il non voler agire in modo incisivo sulla spesa pubblica lo si spiega anche seguendo questa chiave di lettura – mediazione, non rottamazione, e più spesa di solito significa avere più strumenti per acquistare consenso – e la strategia del quieto vivere si trova anche dietro la scelta del governo di non trasformare il disegno di legge sulla concorrenza in una grande lenzuolata liberalizzatrice.
 
[**Video_box_2**]Avere un’Italia invasa da taxi nel 2016 non è certo il sogno di Renzi ma per quanto possa sembrare paradossale per far crescere un paese i taxi in piazza servono, eccome, perché il quieto vivere dà ottimismo ma alla lunga rischia di bloccare gli ingranaggi della macchina. Renzi ha tutte le carte in regola per spezzare le catene dell’Italia ma il prossimo anno sarà decisivo per capire se in tema di politica economica continuerà, come ha fatto con il jobs act, a esercitare la sua leadership o comincerà, viceversa, ad ascoltare troppo i suoi follower e a trasformare la leadership in una followship. E se la paura di Renzi è quella di perdere qualche voto in qualche città, visti i tempi, forse, proprio non ne vale la pena.
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