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Piccola posta

Quelli che per riconoscere le vittime in Ucraina pretendono che siano senza macchia

Adriano Sofri

Annalisa Camilli in “Un giorno senza fine. Storie dall’Ucraina in guerra” enumera i diversi atteggiamenti di fronte alla violenza della guerra. Una contronarrazione

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La guerra d’Ucraina è lontana dal lasciar vedere una fine ed è segnata da episodi che ne mutano l’orientamento, come la controffensiva ucraina nell’oblast’ di Kharkiv. La quale ha reso plausibile, secondo molti osservatori, e con più veemenza Anne Applebaum sull’Atlantic, la possibilità che l’Ucraina “vinca”. Copertina e articoli dell’ultimo numero di Internazionale scelgono questo tema: “Se l’Ucraina vince la guerra”, che è il titolo dell’intervento di Lawrence Freedman sul New Statesman. La formulazione di questa possibilità è una vera svolta, dal momento che tutta la discussione successiva al 24 febbraio è girata attorno all’impossibilità metafisica di una vittoria ucraina. Ai sostenitori della resistenza ucraina, come me, sembrava (sia pur in termini mutati sembra ancora) che l’Ucraina, non perdendo, avrebbe vinto, e la Russia, non vincendo, avrebbe perso: non oltre. Ai nemici, franchi o ipocriti, della resistenza ucraina sembrava che la sua sconfitta – piuttosto, la sua disfatta – fosse certa, e che solo la resa le avrebbe risparmiato un’inutile strage. Gli arresi per conto d’altri.

Dunque una prima verifica è già arrivata: era arrivata anche prima del terreno riguadagnato di sorpresa a Kharkiv. Su un giornale che tocca vertici di umorismo come il Fatto il 14 settembre il generale Mini, eccellente persona calata a piè pari nel suo ruolo, ironizzava sulla vantata avanzata che aveva rimesso in mano ucraina 2.500 chilometri quadrati, “la metà della Maremma”. Al momento in cui scriveva, il territorio riconquistato ammontava almeno a 6.000 chilometri quadrati, dunque, per restare al punto, quasi una volta e mezza la benedetta Maremma. Domenica il Corriere, citando lo studio dell’Institute for the Study of the War, assegnava alla controffensiva ucraina di settembre la riconquista di 60.000 chilometri, e adattava la figura americana alla lettrice e al lettore maremmano: “Un territorio più vasto della Sicilia e della Sardegna messe assieme”.

Si capisce che un andamento che, pur in apparenza segnato dallo “stallo” – che è a sua volta un esito fallimentare dell’invasione – passa per mutamenti così rilevanti, o episodi altrettanto imprevisti, sembri scoraggiare la pubblicazione in volume del racconto della guerra, destinato a essere superato dai fatti. Con questa diffidenza ho preso in mano il libro di Annalisa Camilli, “Un giorno senza fine. Storie dall’Ucraina in guerra” (Ponte alle Grazie, pp. 191), ricredendomi presto. Camilli, che lavora per Internazionale (suo un racconto molto bello del G8 di Genova), ha viaggiato in Polonia e Ucraina a marzo e a maggio. Il suo sottotitolo promette quello che dà: storie, di persone, famiglie, animali domestici, luoghi, e sulla loro scorta prova e riprova le opinioni tanto più accanite quanto più campate in aria, o inventate, della discussione domestica. Risacca, nell’accanimento come nell’avventatezza, della grande guerra ai vaccini, quella discussione si è presto infiacchita ed è ricaduta su se stessa, rimuovendo le verifiche dei fatti, o semplicemente sostituendole con le Bollette (lo scrivo maiuscolo, per rispettarne la transustanziazione rispetto alle effettive bollette). Ed è strada facendo, letteralmente, che Camilli misura, quando non si può più contare sull’incertezza dei primi giorni né ancora sulla certezza comoda del senno di poi, i passaggi della guerra in chi la vive e in chi la guarda.

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E “il dibattito avvelenato”. Bucha, certo: quale smania ha spinto – in una condizione senza precedenti di informazione, duemila giornalisti da tutto il mondo – a immaginare una messinscena nelle fosse comuni, come se il nostro passato prossimo non ci facesse pesare addosso le negazioni più enormi? E il dileggio degli aggrediti e della loro audacia. Di nuovo, avverte Camilli, per riconoscere le vittime si pretende che siano senza macchia, e somiglino alla nostra capricciosa idea delle vittime ideali. E la pretesa che, poiché “la guerra è guerra”, non abbia senso richiamarsi a regole e limiti. Camilli enumera gli atteggiamenti diversi di fronte alla violenza di una guerra, e sceglie per sé quello di chi “prova a guardare le vittime negli occhi, riconoscere i carnefici, descrivere la violenza, perché alla fine la storia non sia raccontata soltanto dal punto di vista di chi ha vinto”. Una volta, se succederà di incontrarci, le proporrò di discutere dell’eventualità di non raccontare la storia soltanto dal punto di vista di chi ha perso. Non c’è fretta, per ora è ancora il punto di vista di Maramaldo, dall’alto in basso, a saziare le menti.

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