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Auguri alla Biennale di Venezia, vicina a chi in Russia si oppone alla guerra

Adriano Sofri

L'evento è un posto giusto per guardare, col cannocchiale rovesciato, all'Ucraina occupata, dove la storia torna sui suoi passi per eseguire le vecchie capriole

Dev’essere molto bella la Biennale d’arte di Venezia che si inaugura sabato e si è intanto semiaperta. Ho guardato e ascoltato la conferenza stampa di presentazione di Roberto Cicutto, presidente, e Cecilia Alemani, curatrice, ho guardato i video che anticipano la visita alle opere esposte. Dev’essere molto bella anche per reggere la sfida con la messa in mostra contemporanea di ciò che gli uomini sanno fare restituendo alla polvere i manufatti della loro vita quotidiana e i monumenti delle loro devozioni. Ci sarà al Lido una piazza Ucraina e c’è l’Ucraina con le sue piazze di detriti e salme. Ogni volta di nuovo c’è lo strano rapporto fra arte e guerra, quello della leggendaria risposta di Picasso all’ufficiale tedesco che, davanti al gran dipinto di “Guernica”, gli chiede, come un bambino inorridito: “L’hai fatto tu?”. “No, l’avete fatto voi!”.

L’arte è contro la guerra, certo, ma non se ne accontenta, quando fa sul serio, dice chi è stato. Come Goya, per esempio. Mi ha colpito che Hermann Nitsch sia morto ora, “dipingeva con il sangue”, dicono i titoli, che sono fatti per semplificare, e del resto è vero, sangue, budella, carcasse di animali squartati, si è appena inaugurata anche una sua mostra alla Giudecca, del resto aveva 83 anni, ne avrà avuto abbastanza della macelleria sacra di Mariupol. La Biennale fa spazio – come “Guernica” – a donne, animali, ma più in là nel tempo, immaginazione di un aldilà della storia maschile e umana, il latte dei sogni. E’ implacabile l’associazione di latte donne bambini animali agli incubi d’Ucraina. Tuttavia sarebbe stato ridicolo specchiare nei padiglioni della Biennale il raccapriccio della guerra, il cane accucciato paziente accanto al cadavere seminato a Bucha, i grandi felini affamati e impazziti dello zoo di Mariupol, tutti quei bambini col gattino in braccio, tutti quei bambini senza più.

Non c’è il padiglione della Russia, è chiuso. Curatore e artisti se ne sono ritirati in tempo, forse per non essere complici forse per opportunità o tutt’e due. I padiglioni, si avverte, sono degli stati, che ne dispongono come vogliono. Cicutto ha spiegato che la sua Biennale è vicina a chi in Russia si oppone alla guerra. Ha fatto bene, non è maniera, e i sondaggi russi sono pagliacceschi, mi piace che quel Tinkov, oligarca russo – ci sono più oligarchi in Russia che dentisti in Romania – abbia detto che il 90 per cento dei russi sono contro la guerra; ma lui ormai è meno miliardario, commentano, e ha la leucemia. Dunque può dire la verità. Che cos’è la verità? chiedono qui gli avventori dei social, che hanno in Ponzio Pilato il loro maestro, eppure, interrogati, giurerebbero che adorano “Il maestro e Margherita”, il russo ucraino Bulgakov e il mal di testa del governatore di Giudea.

Auguri alla Biennale d’arte, davvero. Mi sono sforzato di ricordare il 1977, quando Ripa di Meana fece la sua Biennale del dissenso, e tanto per non cambiare un ambasciatore russo, cioè sovietico, minacciò gravi conseguenze, e i comunisti del Pci, compreso Berlinguer, che l’anno prima si era detto più sicuro sotto l’ombrello della Nato, fecero fuoco e fiamme, e all’inaugurazione andò solo Craxi, e la tesi era ancora che l’Urss non potesse allentare i freni perché era accerchiata, benché da molto lontano come mostrano le carte geografiche oggi esibite a provare che la Russia sia accerchiata. Mi sono sforzato di tornarci su perché, nonostante tutto, scandalo, provocazione, intellettuali e artisti italiani dei migliori che vollero tradirsi – tuttavia non ricordo che fra le persone, anche fra quel popolo della sinistra che, pur attraversato da lacerazioni drammatiche, c’era ancora ed era largo – pensate al funerale di Berlinguer, ancora sette anni dopo, nel 1984 – non ricordo che ci fosse un’affezione alla Russia, cioè all’Urss, così nervosa e sottilmente insinuante com’è oggi, non nella sinistra, che lamenta e vanta di non esistere più, ma nella sua prèfica diffusa.

Auguri alla Biennale d’Arte, un posto giusto per guardare, col cannocchiale rovesciato, alla statua del generale Zhukov appena abbattuta nella Kharkiv bombardata, alla statua di Lenin appena ripiantata nella Henischek, Kherson, rioccupata dall’armata di Putin. Dove la storia torna sui suoi passi per eseguire le vecchie capriole. La storia preumana, cui a Venezia si oppone il latte del sogno postumano. Quella di mezzo, quella umana, l’abbiamo saltata.

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