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la vita nomade

Tinariwen: la musica e il rapporto con il deserto

Marco Ballestracci

L'avventura degli ambasciatori tuareg della musica del Sahara. A dispetto dei fondamentalisti distruttori di chitarre. "Non è prudente avere a che fare con chi pensa di essere l'interprete prediletto del Profeta" dice Ibrahim Ag Alhabib, leader del gruppo

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Quanto ci sia di vero nel film “I due Papi” di Fernando Meirelles, cioè se realmente siano avvenute delle intense conversazioni preliminari tra Benedetto XVI e il cardinal Bergoglio prima dell’abbandono del soglio pontificio dell’uno e la salita dell’altro, è pressoché impossibile da stabilire, perché è ben nota la riservatezza di chi dimora all’interno delle mura vaticane. Tuttavia, lo dice anche la Civiltà cattolica (che è la rivista culturale più antica in lingua italiana), il film è sicuramente da vedere per la delicatezza con cui tocca determinati temi apostolico-teologici duramente colpiti dal “secolo”. Ma questo non è affatto un articolo che si occupa di temi vaticani, ci sono specialisti emeriti che lo fanno, quanto piuttosto è un pezzo che trae ispirazione da una sequenza dei “Due Papi”. Più precisamente è un momento del film che introduce un motivo musicale, ma non è “Dancing Queen” degli Abba che è un divertente pretesto per accendere il prevedibile calembour teologale tra Jonathan Pryce (il cardinal Bergoglio) e Anthony Hopkins (Papa Ratzinger). E’ invece una canzone che compare a pochi minuti dallo sfilare dei titoli di coda. L’appena eletto Papa Francesco, come si narra essere nella sua indole, cerca d’acquistare per conto proprio un biglietto aereo per Lampedusa. Ci riesce solo grazie all’aiuto d’una guardia svizzera che effettua la prenotazione attraverso il telefono cellulare e immediatamente dopo inizia una carrellata d’immagini dei viaggi apostolici del pontefice, iniziando appunto da quello verso l’isola del Canale di Sicilia. 

Hanno poco a che fare con il Sahel perché, pur essendo territorialmente maliani, appartengono a una nazione molto più estesa, quella del Sahara

 

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Il brano musicale che accompagna i brevissimi spezzoni delle missioni apostoliche è “Sastanàqqàm” della band maliana dei Tinariwen. A prima vista la scelta musicale del regista pare scontata: una band che proviene dal Sahel è immediatamente accostabile con Lampedusa, perché un numero rilevante di migranti che sbarca sull’isola proviene da quella fascia di paesi africani. Perciò il primo accostamento che viene evocato è quello dei suoni tradizionali di coloro che abbandonano i propri paesi: di quelle persone che, come disse Francesco sull’isola, “popolavano quelle barche, che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”. Ma, in realtà, i Tinariwen hanno ben poco a che fare con i migranti del Sahel, non tanto perché hanno conseguito un certo successo e persino, con “Tassili”, un Grammy Award per il miglior album di World Music nel 2012. Hanno poco a che fare con quella regione perché, pur essendo territorialmente maliani, appartengono a una nazione e a un popolo molto più estesi, che non intende affatto abbandonare, per nessuna ragione al mondo, il luogo dove è cresciuto: il deserto del Sahara. 

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I Tinariwen, come amano definirsi, sono “un collettivo Tuareg” e gli Uomini blu (li chiamano così per via del colore predominante dei caffettani che indossano) hanno una leggenda che li accompagna. “I tuareg non sono come gli altri uomini che vivono intorno e dentro al deserto. I tuareg sono tutt’uno col Sahara, sono i suoi ambasciatori prediletti: dove arriva uno di loro di lì a poco, non importa che clima ci sia in quel luogo, arriva inesorabile il deserto”. Gli Uomini blu pascolano i loro animali, battono le piste più impervie e arrivano dappertutto, dall’Algeria al Niger, sino al Burkina Faso, ma non si mescolano con altra gente e rimangono, se così si può dire, autentici. Anche la loro musica ha la medesima esclusività. Per esempio quando i nordafricani di un paese preciso – Marocco, Tunisia, Algeria o Libia – ascoltano la musica dei Tinariwen non la classificano come propria, dicono semplicemente: “E’ la musica del deserto”, come se provenisse da un luogo differente da dove vivono, anche se il Sahara rappresenta la quasi totalità del territorio di Marocco, Tunisia, Algeria e Libia. Evidentemente per i nordafricani generalmente presi il centro del Sahara – il vero Sahara – sta altrove e codesto altrove l’hanno potuto attraversare e conoscere solo i tuareg, i pastori nomadi. Perciò la loro ispirazione musicale è differente da tutte le altre. Quindi potrebbe essere proprio questo – e io sono convinto che lo sia – che ha portato Fernando Meirelles a scegliere “Sastanàqqàm” (dall’album “Elwan”) per accompagnare le sequenze dei viaggi di Francesco. Perché il Papa, lo si continua a cantilenare da così tanti anni, è un pastore e il suo nomadismo è necessario per seguire passo dopo passo il gregge. Perciò non c’è musica migliore che quella dei tuareg, i pastori nomadi del Sahara, per sottolineare la rapida successione di quelle inquadrature quasi conclusive dei “Due Papi”.

“Grazie alla musica, usciamo dal ‘nostro’ deserto, ma ritroviamo la pace in ogni luogo desertico del mondo. Per esempio il Joshua Tree”

 

Ibrahim Ag Alhabib che, infrangendo le regole del collettivo, è da considerare il band leader dei Tinariwen, spiega in questo modo il rapporto col deserto: “Molti credono, anche a causa del nostro nome, che il gruppo abbia un legame esclusivo col deserto del Sahara. Però Tinariwen nella lingua tuareg è, in realtà, il plurale di Ténéré e perciò significa ‘deserti’. Noi, grazie alla musica, siamo spesso in tournée e quindi usciamo dal ‘nostro’ deserto, quello che ci ha cresciuto, ma ritroviamo la pace che cerchiamo in ogni altro luogo desertico del mondo. Per esempio il Joshua Tree, che molti hanno sentito nominare proprio per merito della musica, ci ha restituito lo spirito del Ténéré. In ogni deserto ci sentiamo a casa. E’ una strana e bella sensazione. Credo che ciò accada proprio perché in quei luoghi noi sentiamo un fortissimo legame con la natura, coll’ambiente che ci circonda e, in definitiva, con la forza degli elementi”. E’ persino un affermazione contemplativa, di uno stato personale vicino alla pace interiore, favorito dalla pressoché eterna immobilità del deserto del Sahara: del Ténéré. Ma il deserto non è stato affatto un luogo di pace per i tuareg, soprattutto per coloro, come Ibrahim, che sono nati all’inizio degli anni 60 nella regione di Kidal, nel nord del Mali, quando gli Uomini blu iniziarono la prima ribellione contro il governo maliano. La sconfitta militare relegò molte comunità tuareg nei campi profughi degli stati confinanti – in Algeria, in Libia, in Mauritania – e i campi profughi non sono per loro natura luoghi che invitano alla meditazione. Sono piuttosto focolai di nuove ribellioni. 

“Nei campi profughi della Libia anch’io ho imbracciato un fucile mitragliatore. Ho fatto come mio padre quando ero bambino, ma non ho impiegato molto tempo per comprendere che troppe volte le armi si puntano verso le persone sbagliate, così a un certo punto ho deciso di imbracciare l’unica arma che sapevo usare efficacemente: la chitarra. Al contrario d’un mitragliatore è un oggetto semplice, la prima chitarra che ho adoperato l’ho costruita da solo, ma se cominci a suonarla al tramonto in un accampamento nel deserto il suono si propaga a così grandi distanze che, poco tempo dopo, arriva gente da ogni direzione per ascoltarti. Perciò la musica è il modo migliore per diffondere il messaggio di liberazione del popolo tuareg. Le nostre canzoni sono andate molto più lontano dei proclami del Movimento popolare di liberazione dell’Azawad (L’Azawad è la parte a nord del Mali, quasi del tutto abitata dalle popolazioni Kel Tamasheq, cioè che parlano il tamasheq: la lingua dei tuareg, che ha una propria scrittura autoctona, il tifinagh) e questo indica quanto sia grande il suo potere di propagazione”. 

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“Ho deciso di imbracciare l’unica arma che sapevo usare efficacemente: la chitarra. Al contrario d’un mitragliatore è un oggetto semplice”

Nonostante il completo affidamento alla pacifica capacità di diffusione della musica, coloro che sono caduti nell’affascinante malìa delle modulazioni dei Tinariwen ricordano fin troppo bene uno dei mini-documentari che accompagnarono l’uscita dell’album “Imidiwan”. Le immagini riprendevano la band durante un lungo attraversamento nel nord del Mali: da Achemelmel il gruppo doveva raggiungere Timbouctou (più precisamente Essakane, un centinaio di chilometri di piste sahariane più a ovest) per suonare al leggendario Festival du Desert. La piccola carovana di jeep infrangeva la polvere del Ténéré, ma in ciascuno dei mezzi, sul sedile vuoto a fianco del guidatore erano accomodati degli AK 47, con tutta la severità del loro grigio scuro metallizzato. “Purtroppo sono necessari. Qui come sulle piste che vanno in Algeria o in Mauritania. Lo spezzettamento dei clan rende l’attraversamento pericoloso, perché ci sono piccole bande di predoni che tentano di controllare il territorio. Noi evitiamo le armi e ne rimaniamo distanti durante il viaggio: non vogliamo incidenti di sorta, perciò neppure le avviciniamo, ma se dovessimo incappare in qualche brutto incontro non possiamo essere colti di sorpresa”. Tuttavia dal 2012 i predoni sono diventati un problema marginale, perché la sempre maggiore influenza dei fondamentalisti islamici salafiti di Ansar Dine nel Movimento popolare di liberazione dell’Azawad ha reso molto rischiosa l’attività musicale nel Mali del nord. I kalashnikov potevano davvero poco di fronte ai precetti della strettissima Sharia dei “Difensori della Fede” (“Non si deve più ascoltare la musica di Satana. La Sharia vuole che i versi del Corano prendano il suo posto”).

Dal 2018 sono via dal Mali, in esilio. “Era troppo pericoloso rimanere nell’Azawad, i salafiti continuavano a tenderci imboscate”

Così, dal 2018, i Tinariwen sono tornati in esilio. “Era troppo pericoloso rimanere nell’Azawad, i salafiti continuavano a tenderci imboscate per impossessarsi dei nostri strumenti e poi distruggerli. In più, in fin dei conti, anche noi violavamo ciò che loro consideravano precetti coranici e non è prudente avere a che fare con chi pensa d’essere l’interprete prediletto del Profeta. Così siamo stati costretti a riprendere la vita nomade. Abbiamo viaggiato continuamente tra Marocco, Sahara occidentale e Mauritania. Abbiamo composto canzoni e abbiamo collaborato coi musicisti del luogo. Poi è arrivato il momento di incidere un nuovo album e non abbiamo avuto dubbi sul titolo: ‘Amadjar’, che in lingua tamasheq significa ‘Viaggiatori Stranieri’. Perché così ci sentiamo: stranieri. Nonostante il deserto sia sempre il deserto e noi tuareg siamo viaggiatori, i monti dell’Adrar des Ifoghas (estremità a nord del Mali, al confine coll’Algeria) sono la nostra casa. Adesso però la nostra casa è lontana. Così abbiamo cercato di ricostruirla mentre registravamo l’album. Abbiamo issato una grande tenda a Nouakchott, in Mauritania, e registrato con un’attrezzatura mobile quando il sole iniziava a tramontare. Qualche giornalista ha scritto che suonavamo solo per gli scorpioni e non si può dire che avesse torto. Però non potevamo in nessun caso registrare rinchiusi in uno studio. Avremmo perso il contatto col deserto che è la nostra ispirazione più grande. Sia per la diretta sintonia con la natura, sia perché ci fa sentire sospesi nel tempo. E’ una sensazione che è difficile spiegare. Si percepisce vivendo a lungo nel Ténéré, oppure in qualche altro luogo desertico. E’ qualcosa che vive nell’essenza più profonda dei deserti”. Tutti quei deserti che i tuareg in lingua tamasheq chiamano Tinariwen.

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